L’approvazione della legge sarda sui vitalizi, la legge fatta al Colosseo con la gente che chiedeva di impiccare almeno un consigliere regionale percettore o percependo un vitalizio, comincia l’iter delle lacrime di coccodrillo che ormai è d’obbligo in questo mondo feroce. Anche ai ragazzini si insegna: “Prima picchia, poi pentiti”.
Un consiglio regionale che ha subito la drammatica performance dell’Assessore dell’agricoltura in Aula (drammatica per le istituzioni e per chiunque ne abbia fatto parte) non stupisce che abbia approvato sull’onda del principio di immedesimazione con l’uomo della strada (da cui prima si insegnava ad emanciparsi) una legge che, unica in Italia, sancisce che un consigliere regionale sardo non possa costruirsi una pensione integrativa pagandosela alla stesse condizioni con cui un parlamentare italiano lo fa per sé.
Non solo: anche in Sardegna è stata introdotta la barbarie della retroattività che in Italia è iniziata con i vitalizi ed è finita sulle pensioni ma anche sulle norme per la detenzione per corruzione. Un paese incivile e ignorante non ha capito che affermato un principio una volta (si possono varare leggi retroattive) lo si può fare per ogni settore.
La mia posizione di potenziale percettore di un vitalizio è nota: avrei preferito la restituzione dei contributi versati e la chiusura di ogni rapporto con l’istituzione del Consiglio regionale. Neanche questo è possibile.
Perché?
Perché in Consiglio trionfa l’ipocrisia.
In sostanza, da una parte si sostiene che il lavoro del Consigliere regionale va pagato e lo si paga con una formula particolare: metà esentasse come rimborsi e metà come stipendio.
Si riconosce dunque che si tratta di un lavoro, però si impedisce che alle stesse condizioni di altri lavoratori ci si possa costruire una pensione integrativa.
Perché? Perché la rappresentanza politica non sarebbe un lavoro. Ma allora perché non si rinuncia alla parte stipendiale e la si finisce così?
Nessuno stipendio per gli incarichi elettivi, ognuno continua a fare ciò che già fa (ma i dipendenti pubblici non possono farlo, perché vengono messi obbligatoriamente in aspettativa, l’unico docente universitario che riuscì a continuare a insegnare facendo il parlamentare fu l’ex Ministro della Giustizia Diliberto) e continua a prendere lo stipendio di prima facendo il lavoro di prima. Sarebbe un quadro interessante, perché metterebbe a nudo chi vive di politica e chi no, come accade nei consigli comunali. Non si è pensato neanche per un momento di fare così.
Poi però ci si tappa gli occhi di fronte all’evidenza: chi rientra al lavoro dopo questa esperienza subisce spesso l’umiliazione di non trovarlo più e questo avviene costantemente nel settore privato, ma adesso anche in quello pubblico dove chi è stato assente per cinque anni ritrova solo formalmente le funzioni, ma sostanzialmente viene condannato all’inedia, a non fare nulla, ad aspettare.
Credo adesso sia chiaro il perché del progressivo imbarbarimento delle assemblee legislative: sono luoghi sempre più frequentati da chi non avrebbe altro da fare o che avrebbe da fare qualcosa di enormemente meno redditizio e quindi non ha niente da perdere a non fare il legislatore ma a fare il tifoso al circo. Ma lo fa da ipocrita: sa che ciò che fa è un lavoro impegnativo, si fa pagare e non rinuncia allo stipendio, però impedisce a chi lo ha già fatto di recuperare i contributi versati e salutare con sdegno un luogo che un tempo era un’istituzione oggi è un palcoscenico, come pure impedisce a chi oggi esercita la funzione con onore di potersi pagare una pensione integrativa che, attualmente, concorrerebbe a costruire a 65 anni un’integrazione di 480 euro per legislatura. Questo fa l’ipocrisia al potere: deforma tutto, maschera tutto, confonde tutti.