Stiamo raccontando la richiesta di revisione del processo che ha portato alla condanna all’ergastolo di Beniamino Zuncheddu, il quale da sempre si è professato innocente.
Abbiamo raccontato i tragici eventi dell’8 gennaio 1991, quando vennero uccise tre persone e una gravemente ferita.
Abbiamo pubblicato la prova principale che dimostra come il riconoscimento di Beniamino Zuncheddu da parte dell’unico sopravvissuto sia stato indirizzato e costruito a tavolino da un Ispettore della Polizia di Stato.
Ci stiamo occupando di questa vicenda per due motivi:
1) perché si tratta di un errore giudiziario che tiene una persona in carcere ingiustamente da trent’anni;
2) perché si tratta di un errore giudiziario costruito da poteri dello Stato (e il Procuratore generale che ha chiesto la revisione del processo ne spiega i motivi e sono terribili), i quali poteri oggi pretendono che Zuncheddu si dichiari colpevole per avvantaggiarsi delle agevolazioni di legge (permessi e libertà) prima della revisione del processo;
2) perché alla fine arriveremo a parlare di questi poteri.
Oggi facciamo un passo in avanti, sempre grazie alla richiesta di revisione del processo avanzata dal Procuratore generale.
Ricordiamoci che la strage per cui Zuncheddu è stato condannato avviene l’8 gennaio 1991.
Zuncheddu non spara Il Procuratore generale ha affidato una serie di perizie per ricostruire le attività ragionevolmente messe in atto per l’agguato e di conseguenza le necessarie abilità che si sarebbero dovute attribuire al killer.
L’assassino non poteva aver agito di impulso, ma solo dopo aver osservato a lungo chi si trovava nell’ovile, che cosa faceva e che possibilità di fuga poteva avere. Non solo: il killer, ovviamente, doveva saper maneggiare bene le armi e essere abituato a sparare in movimento.
La sentenza di condanna attribuisce queste capacità a Zuncheddu generalizzando un luogo comune: tutti negli ambienti pastorali sono cacciatori e sanno sparare (Dio ci liberi dai giudici che considerano la vox populi come vox Dei).
In realtà Zuncheddu non è mai stato cacciatore e non maneggia le armi, tanto meno i fucili, perché ha una congenita lesione a un sistema muscolare (aplasia sub-totale del gran pettorale destro, ipoplasia del trapezio destro e del muscolo dentato destro, riduzione sensibile della massa muscolare dell’arto destro).
Inoltre, gli orari e gli spostamenti di Zuncheddu l’8 gennaio erano tali da dover immaginare un suo arrivo all’ovile a buio fatto, senza possibilità di osservazione preventiva, con parcheggio in bella vista delle sue vittime, con fucile in bella vista a tracolla (perché il mezzo di trasporto di Zuncheddu era una moto) o nascosto preventivamente in un luogo vicino al parcheggio ‘in bella vista’, e infine con una rapidità di esecuzione degna di un killer professionista, senza tentennamenti, senza stress, senza esitazioni e tale da consentire il ritorno in paese nel giro di poco più di un’ora, tutto compreso.
Il sequestro Date queste assurdità ricostruttive, il Procuratore generale ha l’obbligo di svelare che cosa si fosse ‘coperto’ con l’attribuzione della strage a Zuncheddu. La risposta, come frequentemente accade, è stata trovata in un rapporto del 1992 dei Carabinieri di Dolianova che non avevano mai creduto alla tesi del contrasto tra pastori confinanti come movente della strage.
Il 20 ottobre del 1990, cioè un anno prima della strage di Sinnai, era stato rapito Giovanni Murgia, proprietario terriero di Dolianova, uomo fiero, retto e che non si fa mettere il dito nel naso da nessuno. Venne rilasciato l’11 gennaio 1991, cioè tre giorni dopo la strage, nelle campagne di Teti. Gianni difese la sua mente dalla brutalità dei suoi sequestratori e riuscì, memorizzando luoghi, suoni, odori, parole, a ritrovare e riconoscere la sua prigione e a far arrestare tutti i suoi sequestratori. Scrisse anche un libro, Sona ca ti sonu edito dalla gloriosa e indimenticata Cuec, purtroppo trascurato dagli inquirenti perché critico nei loro confronti (ne riparleremo).
Tra i condannati vi fu anche un noto latitante che noi, per l’appunto, chiameremo il Latitante.
Grazie alla descrizione del percorso fatto subito dopo il sequestro dalla signora che si trovava con Murgia in quel momento (Murgia aveva reagito e, dopo averne date, ne aveva preso talmente tante da passare l’intero itinerario verso la prigione privo di sensi , ‘adagiato’ nell’auto dei sequestratori), i Carabinieri di Dolianova ipotizzarono che i sequestratori fossero passati per un tragitto che li aveva portati prima a attraversare i terreni di un complice (poi condannato) con cui parlarono, e infine giungere in uno slargo antistante l’ovile delle vittime della strage di Sinnai (qui avvenne il trasbordo di Gianni dall’auto della signora a quella che lo condusse alla prigione barbaricina). I Carabinieri misero nero su bianco: “Sebbene l’ipotesi di un’eventuale connessione tra la strage di Sinnai e i fatti delittuosi indicati in oggetto (NB: il sequestro Murgia) possa sembrare macchinosa, questo non è il parere degli scriventi, che mai hanno creduto che movente del delitto fossero contrasti, nati nell’ambiente agropastorale, tra l’assassino e gli uccisi. Il gravissimo episodio criminoso doveva quindi avere un motivo ben maggiore, come quello, ad esempio, di eliminare testimoni pericolosi o complici in disaccordo”.
Ci fermiamo qui, ma già comincia a delinearsi il quadro inquietante che ci ha sollecitato a occuparci di questa vicenda: perché apparati dello Stato hanno depistato le indagini, costruendo il capro espiatorio Zuncheddu per coprire l’azione di sequestratori e latitanti incalliti? Ne riparleremo.
RABBIA E TRISTEZZA!!!!! BO!!!!