Quando le urla laceravano la casa, si nascondevano. Sentivano la paura sopra e dentro. Si soffocavano improvvisamente tutti i sogni, nei corpi che tremavano.
Accadeva ormai tantissime volte. Sempre più di frequente. In ogni ora del giorno. E ogni volta insieme andavano nell’angolo più buio della stanza, in quel piccolo, compresso, appartamento di periferia. Sparivano quando iniziava, riapparivano, come il sole tiepido, allo scomparire delle nubi nere. E, insieme, si avvicinavano ad abbracciarla. Il fazzoletto insanguinato non serviva ad asciugare le lacrime silenziose sulle loro guance di bambine.
E venne il giorno, dopo tanti giorni, alla fine. E non ci fu fazzoletto. E neppure l’abbraccio. Ma un corpo sfinito e violato privato di futuro, dopo anni di insopportabile passato. Ancora una volta una madre. Ancora una volta figlie innocenti. Ancora una volta la brutalità maschia irrimediabilmente colpevole.
Non ci fu consolazione. Neppure aiuto. Ci fu solitudine, per quelle bambine divise dalla legge e dalla legge abbandonate.
E poi la beffa. Loro che avevano bisogno e soprattutto diritto, con una lettera burocratica furono frustate anche dallo Stato. Da quello stato multiforme che perde la coscienza di se nelle grigie procedure, negli interpreti aridi dei codici.
Senza madre, senza famiglia, col ricordo della violenza di un mostro come padre, innocenti di tutto, erano state avvisate che i danni, quelli economici, causati nel tragico evento sarebbero ricaduti su di loro. Su quelle spalle, forti, di bambine.