di Paolo Maninchedda
Inizio oggi una riflessione che svolgerò in due parti: la seconda uscirà domani. Una riflessione sulla nostra libertà (intanto, se volete nutrirvi di bellezza, ascoltate qui)
Nei giorni scorsi sono stati pubblicati due testi che devono far riflettere, perché riguardano la nostra libertà personale, la giusta riservatezza della nostra vita privata, la fiducia con la quale si dovrebbe vivere in uno Stato efficiente e moderno e nella quale vivremo nello Stato che costruiremo noi in Sardegna.
L’Italia è uno Stato fondato sul sospetto: la lezione del capo della Polizia.
Il Capo della Polizia Gabrielli ha rilasciato una durissima intervista a Repubblica, questa volta non contro un malfattore, ma contro la Magistratura. Non era mai accaduto.
Che cosa dice il Capo della Polizia? Contesta la scelta della Sesta Commissione del CSM (inutile cercare il documento in rete, il sito del Csm non è aggiornato con la cura con la quale dovrebbe esserlo) di chiedere al governo la modifica della legge vigente che obbliga il poliziotto di Polizia Giudiziaria a riferire non solo al magistrato ma anche al suo superiore e dunque, nella catena gerarchica, al Capo della Polizia. Perché? Perché, sostengono i magistrati, in questo modo si viola la riservatezza delle indagini. Gabrielli reagisce perché capisce chela Magistratura di fatto sostiene che la Polizia non è affidabile, in una parola tradisce. Ecco i passi più significativi dell’intervista del Capo della Polizia, poi li commentiamo:
“Non sopporto il paradigma della doppia morale. Il “si fa, ma non si dice”. Mi offende come servitore dello Stato aver dovuto leggere in questi giorni le motivazioni con cui la sesta commissione del Consiglio superiore della Magistratura raccomanda al plenum di sollecitare il governo Gentiloni a modificare la norma che, lo scorso agosto, ha introdotto l’obbligo per la polizia giudiziaria di trasmettere alla scala gerarchica notizie sulle informative di reato e sui loro sviluppi. Perché quella norma, si dice, sarebbe un tentativo fraudolento di sterilizzare l’azione della magistratura. Una grave interferenza nel segreto delle sue indagini. Come se il sottoscritto e i vertici delle forze dell’ordine non avessero giurato fedeltà alla Costituzione, ma alla maggioranza di governo del momento”.
Gli sviluppi anche di queste ultime ore della vicenda Consip e l’inchiesta sulle fughe di notizie e depistaggi del Noe dei carabinieri qualche dubbio lo fanno venire sull’uso interno agli apparati che delle notizie di indagine viene fatto.
“Il lavoro che la Procura di Roma sta facendo sulla vicenda Consip dimostra esattamente il contrario di ciò che a questa storia si è fatto dire. Se la trasmissione delle notizie in via gerarchica è disciplinata e quindi trasparente, viene sottratta a prassi non scritte e opache. A ricatti o paranoie. Rende le responsabilità chiare. Perché è agevole ricostruire chi doveva sapere cosa. E, a quel punto, chi ha sbagliato paga. E paga in modo esemplare il tradimento del giuramento di fedeltà alla Costituzione. Sia nell’ipotesi che abbia tradito il vincolo del segreto per avvantaggiare chicchessia. Sia in quella che, coprendosi con il segreto, abbia per questo commesso abusi o illeciti di polizia giudiziaria. Mi creda, il livello di disonestà intellettuale utilizzato nella vicenda Consip per sostenere che in questo Paese esistono pochi cavalieri bianchi le cui mani vengono legate da vertici di Polizia corrivi con la Politica e le sue convenienze, servi di un progetto eversivo che avrebbe dovuto cambiare prima la Costituzione e poi mettere in un angolo la magistratura, è pari solo allo sconforto che provo pensando al pregiudizio da cui questa falsità muove”.
Di quale pregiudizio parla?
“Quello per il quale quando si parla di Corpi dello Stato e Istituzioni, si ritiene che una categoria interpreti meglio il principio di fedeltà repubblicana di altre. Bene, la mia esperienza di poliziotto mi ha insegnato che l’abito, non necessariamente, e soprattutto spesso, non fa il monaco. Quindi, non credo di dire un’eresia se chiedo che alla catena gerarchica custode di notizie riservate vada garantita la stessa presunzione di innocenza e buona fede che, in questo Paese, viene riconosciuta a qualsiasi pm. E poi, me lo lasci dire, dobbiamo metterci d’accordo una volta per tutte”.
Su cosa?
“Parliamo di sicurezza, prevenzione, nuovi modelli di difesa civile. E allora qualcuno mi dovrebbe spiegare di cosa si dovrebbe occupare o come potrebbe incidere un capo della Polizia o il vertice di una forza dell’ordine privo di qualsiasi notizia. Ormai, al mondo, non esiste più nessuno, quando si parla di sicurezza, che non riconosca che l’unico principio cui ispirare strategie di prevenzione efficaci sia quello olistico. Vale a dire il principio che dimostra come organismi complessi, come nel caso della sicurezza, non siano riconducibili alla semplice somma delle loro parti. Noi che vogliamo? Sosteniamo che lo scambio di informazioni è fondamentale, ad esempio, nelle strategie antiterrorismo e di prevenzione e sicurezza. Ma come la mettiamo se, a quanto pare, la circolazione di quelle notizie è un attentato alla qualità della nostra democrazia e alla sacralità del segreto di indagine? Poi che diciamo ai 1500 feriti di piazza san Carlo?”.
Perché ora fa riferimento alla notte di sangue di Torino?
“Perché la questione è sempre la stessa. E gli inglesi la riassumono in una parola. Accountability. Responsabilità. Due giorni fa ho detto: i feriti di Torino hanno diritto di sapere cosa è successo. Bene. Chiedo: è eversivo che il capo della Polizia venga informato in via gerarchica dal questore di Torino dello stato di avanzamento della ricerca della verità? È eversivo che il capo della Polizia invii una circolare in cui chiede a prefetti e questori che, di qui in avanti, le ragioni della safety debbano prevalere su quelle in senso stretto dell’ordine pubblico? E che queste responsabilità vengano condivise con i sindaci? Cosa c’è di antidemocratico in chi si assume delle responsabilità? Ma forse è proprio questo che fa paura”.
Fin qui Gabrielli a Repubblica.
Adesso faccio io una domanda: servono ancora conferme sul fatto che io denuncio da tempo e cioè che l’Italia è un Paese fondato sul sospetto e non sulla fiducia?
Ma la domanda più inquietante è la seguente: se parti intere dello Stato sono sospettosamente armate le une contro le altre, quali reali tutele ha il singolo cittadino rispetto all’enorme potere degli apparati pubblici impegnati in una guerra senza quartiere priva di senso e volta in ultima analisi
all’egemonia di un’opinione pubblica nutrita con e per la ferocia mediatica? Ciò che sta accadendo in Italia nella lotta senza quartiere tra apparati dello Stato e istituzioni è nient’altro che la trasposizione sul piano dello scontro dei poteri dell’educazione e della pratica dell’odio e del pubblico ludibrio che si registra in rete nei social. Gli odiatori seriali hanno conquistato la ribalta estetica e sociale e le istituzioni, che vogliono guidare questa ribalta, si adeguano e si nutrono del nuovo alimento del consenso: l’odio e la sfiducia. Questa è l’Italia.
L’Italia è uno Stato vulnerabile con cittadini vulnerabilissimi: la lezione di Antonello Soro
Ci sono però anche istituzioni che cercano di aiutare le persone normali a difendersi, a tutelare la propria privacy e a esercitare la propria libertà. È il caso di Antonello Soro, il garante della Privacy, che ha pronunciato un discorso sull’operato dell’Autorità nel 2016 che merita di essere letto per intero, perché è, pur essendo stato scritto da un cattolico, un manifesto di cultura libertaria e di tutela dei diritti individuali, nonché una miniera di notizie su quanto siamo esposti ad essere spiati e manipolati nel mondo della globalizzazione, della tecnologicizzazione dell’umano, della profilazione degli individui sulla base dei comportamenti captati dalla rete.
Risulta chiarissimo dalla relazione che siamo tutti manipolati e manipolabili, spiati e spiabili, come pure che anche le istituzioni utilizzano i nuovi strumenti per il controllo delle persone grazie a leggi assolutamente anacronistiche rispetto al potere delle nuove tecnologie. Occorre ripensare lo stesso concetto dell’esercizio della democrazia: gli attacchi hacker durante le elezioni sono ormai un dato di fatto. Si pone chiara l’esigenza di nuove carte costituzionali che difendano diversamente i diritti individuali e disciplinino diversamente i poteri pubblici. Altro che venerare le costituzioni europee come reliquie; sono costituzioni deboli, ormai sopraffatte da poteri fortissimi, apparentemente anonimi e da tecnologie che possono essere disponibili per i poteri pubblici come per quelli privati e esercitati senza alcuna garanzia.
Ecco alcuni stralci del testo.
“Nella dimensione digitale si svolgono, sempre di più, le relazioni ostili tra gli Stati e dentro gli Stati.
Secondo stime recenti, nello scorso anno le infrastrutture critiche sarebbero state oggetto del 15 per cento di attacchi in più rispetto al precedente e sarebbero cresciuti del 117 per cento quelli riconducibili ad attività di cyberwarfare, volte a utilizzare canali telematici per esercitare pressione su scelte geopoliticamente rilevanti”. (…)
“La resilienza informatica nel contrasto delle minacce cibernetiche deve, dunque, rappresentare ciò che la resilienza della democrazia rappresenta nel contrasto del terrorismo. E per garantire davvero la cybersecurity – componente strategica della sicurezza nazionale e pubblica – è necessario evitare il rischio della parcellizzazione dei centri di responsabilità, con una centralizzazione di competenze e un’organica razionalizzazione del patrimonio informativo, anzitutto pubblico.
Ciò vale tanto per i Big Data di cui si alimenta la pubblica amministrazione, quanto per la “signal intelligence” e in generale l’attività d’indagine di tipo strategico, che rischia di allontanarsi da quel principio di proporzionalità tra privacy ed esigenze investigative ribadito più volte dalla Corte di giustizia. E di recente declinato così da tradurre uno strumento investigativo ontologicamente massivo, quale la data retention, in uno selettivo, da applicare a obiettivi mirati e in base a presupposti stringenti”. (…)
“Rispetto alla cronaca giudiziaria si è registrata, anche quest’anno, la diffusione di atti d’indagine in violazione del relativo regime di pubblicità e spesso anche del principio di essenzialità dell’informazione. (…) Giustizia e informazione si caratterizzano principalmente, infatti, per la loro indipendenza e, quindi, per la responsabilità nell’esercizio delle rispettive funzioni. Responsabilità tanto più necessaria rispetto al potenziale distorsivo del processo mediatico, in cui logica dell’audience e populismo penale rischiano di rendere la presunzione di colpevolezza il vero criterio di giudizio.Tale esercizio di responsabilità sarà certo favorito dalla proficua circolarità instaurata tra giurisdizione, organo di governo autonomo della magistratura e Garante, al fine di coniugare esigenze di giustizia e privacy. In particolare riguardo al tema delle intercettazioni, su cui diverse Procure e Csm hanno adottato provvedimenti volti a limitare – nel rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa – la trascrizione di contenuti inerenti aspetti irrilevanti ai fini delle indagini o terzi estranei. Molte delle indicazioni contenute in tali provvedimenti e conformi alle raccomandazioni da noi espresse più volte, sono state trasfuse in criteri di delega nella riforma penale all’esame del Parlamento.
E va certamente regolamentato l’utilizzo dei captatori a fini intercettativi (i cosiddetti trojan horse), definendo con rigore il perimetro delle garanzie, in ragione della strutturale diversità di tale strumentoinvestigativo rispetto a quello normato dal codice di rito.
È peraltro indispensabile selezionare i fornitori di servizi di intercettazione in base alle garanzie di sicurezza del trattamento offerte.
L’esternalizzazione di diverse operazioni investigative rende, infatti, assai più permeabile la filiera su cui si snoda l’attività captativa, meritevole per ciò di una tutela rafforzata, come dimostrano anche alcune istruttorie aperte dal Garante su tale fronte.
Significativa, in tal senso, la sanzione irrogata a un consulente tecnico dell’autorità giudiziaria che aveva illegittimamente conservato un archivio di dati personali di notevoli dimensioni, costituito inizialmente per fini di giustizia. Aveva altresì illegittimamente messo a disposizione di numerosi soggetti, compresi alcuni giornalisti, atti giudiziari acquisiti nel corso della sua attività.
Solo l’adozione di adeguate misure di sicurezza, da parte di ciascun soggetto coinvolto in ogni fase dell’indagine, può contribuire a minimizzare i rischi inevitabilmente connessi alla frammentazione dei centri di responsabilità, derivanti dal coinvolgimento di soggetti diversi nella catena delle attività investigative. (…)
“La libertà di espressione tra oblio, fake news, odio informativo. Il diritto all’oblio continua ad essere un terreno di confronto importante nel rapporto tra protezione dati e informazione, promosso dalle istanze che i cittadini ci rivolgono, con sempre maggiore frequenza e consapevolezza. In quest’ambito, ci è stato possibile tracciare alcuni criteri importanti per coniugare memoria collettiva e dignità della persona. In particolare, si è chiarito come anche una rilevante distanza temporale non possa, di per sé sola, legittimare la deindicizzazione di notizie inerenti reati particolarmente efferati che – come nel caso del terrorismo interno – abbiano segnato la storia del Paese. Per altro verso, si è ritenuto sussistente il diritto alla rimozione, dai risultati di ricerca, di notizie che, in quanto superate dagli eventi successivi, non possano più ritene rsi esatte. Costante è stata l ‘attenzione al rapporto tra libertà di espressione e protezione dei dati personali nel contesto dei social network, anche rispetto alle varie forme di sfruttamento, persino commerciale, dei dati sulla vita privata degli utenti lì contenuti. In diverse occasioni ci siamo attivati per bloccare la diffusione dei dati. Come nel caso recente delle donne di Monza e Lecco, i cui profili Facebook sono stati riversati, a loro insaputa, in un, “ catalogo delle single”, esibite come prodotti in vetrina. Abbiamo poi chiarito come l’anonimato da accordarsi ai minori coinvolti a qualsiasi titolo in procedimenti giudiziari, vada garantito a prescindere dalla natura aperta o meno del profilo”.
mi dicono che i marescialli impegnati in una indagine DEVONO seguire la pista indicata dal PM, e guai a loro se ipotizzano o seguono piste non autorizzate dal PM.
roba da non credere !