I giornali italiani hanno messo bene in evidenza che gli americani hanno detto chiaro e tondo a Salvini che se vuole coperture politiche da parte dell’Amministrazione americana, prima di tutto deve fare il gasdotto noto come Tap. Tutti sappiamo che è una infrastruttura che dovrebbe portare, attraverso i Balcani, l’Adriatico e quindi l’Italia, il gas dell’Azerbaigian in Europa.
Il motivo di tanto interesse americano non è economico, ma politico, strategico e militare. Aprire il mercato europeo del gas a un concorrente della Russia, significa continuare nella politica americana dell’impoverimento progressivo del rivale siberiano. Non diversamente da ciò che fece Kissinger nel 1974 quando, in un pranzo ufficiale a Roma, volendo comunicare con chiarezza agli italiani e agli europei che non tollerava che gli uni e gli altri trattassero direttamente col mondo arabo (era il periodo della grande crisi petrolifera), disse che si era sempre augurato che non fosse necessario mandare in Italia, come ambasciatore, un generale degli USA. E Kissinger è passato alla storia per i suoi mezzi spicci, specie in America latina.
La stessa strategia guida la pressione americana su Salvini: se sei con noi, sembrano dire gli americani, e non con i Russi, come ci sembrava fino a ieri, allora dacci un segnale chiaro e netto di atlantismo energetico.
La Sardegna è una sorta di zona franca dell’energia. Non ha infrastrutture del gas, ha un fabbisogno energetico che potrebbe riuscire ad alimentare prevalentemente con solare e eolico (per gli usi domestici) e con un rigassificatore (per gli usi industriali), ha un problema enorme di tariffa energetica legato alla bassa densità demografica (pagano di più coloro che risiedono nei luoghi meno popolati) e non ha una politica delle connessioni. Forse per queste sue condizioni di condanna all’isolamento, nei piani di Gladio, la struttura segreta della Nato che si sarebbe messa in moto nel dopoguerra in caso di invasione russa, la Sardegna era considerata come il luogo ideale per resistere all’invasione e ripartire. Era la solita idea della Sardegna come base militare, come avamposto o come portaerei che dir si voglia.
Un primo dato da memorizzare è che nel pensiero politico sardo non c’è la politica estera della Sardegna, cioè esattamente ciò che di più le è essenziale. L’Italia sta continuando, con il Tap e la Tav, la sua secolare opera di introiettazione delle infrastrutture europee ed euroasiatiche, attraverso il Brennero e attraverso il Frejus; la Sardegna, a differenza del Mezzogiorno d’Italia che usa la continuità del territorio per essere luogo europeo (si pensi alla portualità campana), ha bisogno come il pane di una politica mediterranea, e invece si ha, per volontà popolare, un governo sardo con cervello, cervelletto, epifisi e ipofisi trasferiti in un quartiere periferico di Milano. Sto dicendo che la Sardegna non può non pensare ai propri porti e aeroporti in modo strategico, non può non pensare al suo approvvigionamento energetico sostenibile senza avere una politica delle connessioni; non può pensare a porti, aeroporti e energia senza porsi il problema dei poteri per governare questi processi. Nel Golfo Persico è in atto una mezza guerra per il controllo e il condizionamento dei traffici che dall’Oriente portano merci in Europa. Questi flussi non ci riguardano perché noi non abbiamo mai pensato ai porti e agli aeroporti e all’energia dentro un disegno di presenza della Sardegna nel mondo globale. Se ne ha la prova nella crisi del Porto Canale, ridotta alla pur gravissima emergenza licenziamenti. Invece il problema del Porto Canale è legatissimo alla questione dell’arretramento tecnologico della Sardegna rispetto al rinforzamento realizzato dal Governo italiano dei porti siculi e campani, come pure è legato alla grande questione dei vantaggi fiscali, a ciò che si chiama comunemente Zona Franca. Ebbene, proprio l’assenza di visione strategica mediterranea, che affligge tutti i partiti italiani organizzati in Sardegna, impedisce di vedere che il Porto Canale, se rinascerà, non lo farà prima di un quinquennio e a patto del varo rapido di politiche fiscali e di grandi investimenti infrastrutturali. Può sembrare strano nel mondo della battute e della massificazione semplificatrice della politica, ma oggi come ieri il bene più prezioso, in pace e in guerra, è la visione strategica, che ovviamente non può accettare i limiti dell’autonomismo, ma questo è un altro discorso. Ebbene, la maggioranza di governo sarda a trazione leghista, è dipendente, oggi, da una strategia italiana e leghista di assoluto disinteresse per ciò che la Sardegna è fisicamente, geograficamente, geopoliticamente. Ovviamente non dà alcun valore a queste considerazione perché le sa elitarie, ma noi sappiamo altrettanto bene che il sapere si afferma lentamente, ma si afferma.