So perfettamente, e lo insegno, da dove deriva l’errata vocazione di molti sardi a combattere sulle frontiere sbagliate.
È un costume mentale che gli storici chiamerebbero della lunga durata. È iniziato sotto i re di Spagna che, siccome non capivano la natura multietnica della Sardegna, scrivevano ai viceré che «la governación del Reyno de Cerdeña es muy diferente de las otras islas por ser poblada de diferentes naziones y lenguas». Non una nazione dunque, non un popolo, ma tante nazioni quanti erano e sono i luoghi di nascita. Così è nata la maledizione del localismo. Educati a fraintendere l’orizzonte poco più che domestico come orizzonte universale, inevitabilmente si cresce considerando il vicino sempre come avversario; si cresce guardando l’altro sempre con un retropensiero. Mi ricordo di un collega consigliere regionale che, quando in una discussione non trovava più argomenti per ribattere, chiedeva: «Dove mi stai fregando?». Il localismo e il solipsismo educano al conflitto, non all’impegno. I nobili sardo-iberici per secoli organizzarono le città e le campagne in bandos, organizzarono una commistione tragica tra politica e delitto, tra schieramento pro o contro qualcosa e complicità in razzie, furti e omicidi. I baroni sardi usarono il patronage (il clientelismo) e la forza per gestire la frantumazione del potere nella nostra isola.
Chi è stato abituato per secoli a questi conflitti, quando la storia li mette di fronte non più al cortile di casa, ma a grandi responsabilità storiche, non riconosce facilmente la grandezza della frontiera. Per cui, come è accaduto in tutte le guerre, in primis la Prima Guerra Mondiale, i sardi vanno a morire su frontiere non loro, su interessi non loro, con la rabbia in bocca di non sapere per che cosa si è morti (rivengono in mente i bellissimi versi di Pedru Mura, Est ruttu chen’ischire d’haer viviu; / Chen’ischire de morrere).
Osservo con l’amaro in bocca e una gran rabbia i Sardi dividersi sugli slogan della campagna elettorale per le politiche.
Quante parole dure e durissime si rivolgeranno i sardi in questa campagna elettorale per morire su frontiere lontane?
La Sardegna non c’è in questa campagna elettorale per la Camera e il Senato della Repubblica italiana, ma i sardi muoiono sulla frontiera delle dichiarazioni di leader non solo non sardi, ma assolutamente lontani dalla Sardegna. Invito i partiti che partecipano alle elezioni – noi ne siamo esclusi per prepotenza della legge – a servirsi delle nostre idee e della forza dei nostri dirigenti per difendere la Sardegna. Noi siamo pacificamente impegnati su questa frontiere, siamo impegnati a salvare la Sardegna da questa deriva. Invito i candidati sardi a non insultarsi, a non usare parole definitive che lascino sul campo delle elezioni tanti di quei morti e feriti che poi, alle elezioni sarde, impediscano la costruzione di una forte unità.
Ho letto con molta attenzione il programma del Movimento 5 Stelle, i celebri venti punti.
Sono rimasto di sale.
Non c’è una virgola che sveli la consapevolezza degli interessi nazionali della Sardegna.
Non c’è una parola sul riconoscimento dello svantaggio insulare. Non c’è una parola sulla riduzione delle servitù militari. Non c’è una parola sulla necessità di poteri fiscali in capo al Governo della Sardegna (anzi, si annuncia come straordianriamente nuovo, l’abbattimento dell’Irap, un provvedimento che in Sardegna è già realtà ed ha dimostrato di non avere poteri taumaturgici delle economie deboli). Al contrario c’è la promessa di un forte rafforzamento delle strutture centrali, nuove assunzioni di poliziotti e carabinieri, un forte rafforzamento dei poteri di intercettazione e di intelligence dello Stato.
Poi ritrovo la paga della subordinazione che la Sardegna conosce benissimo, perché sotto il re di Spagna la promessa elargita e mantenuta in cambio della fedeltà era la pensione. Bene, nei venti punti si promettono pensioni, assegni per le famiglie e quant’altro. La promessa per i sardi è dunque: carabinieri, cimici nei telefoni e nei computer, e pensioni. La libertà? LO sviluppo? Il diritto alla mobilità? Il diritto a un fisco scelto da noi e adeguato al nostro sviluppo?
Concludo rispondendo al sindaco di Sassari che oggi dice sul Partito dei Sardi cose assolutamente infondate. Il Partito dei Sardi ha convintamente votato alla presidenza dell’Egas Renzo Ponti, un sindaco proveniente da un piccolo comune, Nurachi. I piccoli comuni sono 240 in Sardegna e avevano diritto a far sentire fortemente la loro voce nell’organo di governo del sistema idrico sardo. Non eravamo stati coinvolti in alcun accordo preventivo, di cui nulla sapevo e nulla so; abbiamo sostenuto alla luce del sole, senza retropensieri e senza complotti, l’autocandidatura di un piccolo comune, perché da sempre siamo impegnati a unire la Sardegna, a evitare le egemonie urbane e a costruire l’unità della nostra patria. Tutto il resto (Abbanoa, controlli, controllini, nomine ecc.) è dietrologia che non ci riguarda.