Il tribunale del riesame di Cagliari ha confermato gli arresti in carcere a uno solo dei quattro indagati che avevano chiesto l’annullamento dell’ordinanza di custodia cautelare del Gip Contini, su richiesta dei Pm Secci e Allieri, per l’indagine denominata “Monte Nuovo” e che ha ipotizzato il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso.
All’ex assessore alla Agricoltura Gabriella Murgia sono stati concessi i domiciliari, due indagati sono stati scarcerati e il dott. Cocco è rimasto a Uta.
Giustamente Francesco Pinna, oggi, sull’Unione Sarda si chiede se i giudici abbiano assunto queste decisioni (cosa che comunque dimostra quanto sia utile combattere in giudizio in sede di riesame, a differenza di quanto sostengono gli avvocati arrendevoli, teorici dell’ineluttabilità della condanna in primo grado e di un po’ di arresti) riclassificando il reato ipotizzato e dunque riformandolo da ‘associazione a delinquere di stampo mafioso’ a ‘associazione a delinquere semplice’.
Impossibile saperlo ora. Bisognerà aspettare il deposito della sentenza.
Tuttavia si registrano già due scarcerazioni e personalmente resto convintissimo che quando un’indagine è lunga e coinvolge molte persone è altamente probabile, per come vengono condotte le indagini e gestiti i materiali investigativi, che i dettagli non siano accurati come dovrebbero essere.
Per capire come è nata l’operazione Monte Nuovo e che cosa può significare, bisogna guardare alla storia recente e all’attività della Direzione Distrettuale Antimafia della Sardegna.
È la terza volta che i magistrati ipotizzano il reato di associazione mafiosa. Le due precedenti (Casalesi a Villasimius e mafia nigeriana) non sono andate proprio bene: in giudizio l’accusa è crollata. Eppure, qualcosa di ciò che i magistrati ormai da più di un decennio subodorano a me pare reale e meritevole di attenzione.
Abbiamo a che fare con i magistrati che hanno indagato sulle bande delle rapine ai portavalori della Sardegna e che hanno solo in parte dimostrato, ma in parte sì, che il Pil della Sardegna deve molto al traffico di droga. Il circuito intuito e solo in parte dimostrato è il seguente: denaro dalle rapine reinvestito in droga e armi e poi ripulito in attività commerciali e immobiliari.
I punti fermi: il tenore di vita delle aree urbane sarde non è giustificabile col solo Pil prodotto legalmente; la criminalità sarda sa essere fredda, militarmente attiva (la rapina di Giave col caotico conflitto a fuoco che ne derivò, è ancora senza colpevoli), capace di comporsi e scomporsi modularmente; la criminalità di peso è protetta da fortissime relazioni interpersonali ad oggi non intaccate da alcun pentito.
È questo mondo di armi, rapine e droga che ha portato la Dda a condurre l’operazione Monte Nuovo.
Che cosa sta inducendo la Dda sarda a riproporre continuamente il reato mafioso? La risposta è semplice: la constatazione che il circuito criminale che essa sta inseguendo (senza riuscire a inibirlo completamente), e sulle tracce del quale è comunque giunta a ricatturare Mesina, ha modi di comportamento che si avvantaggiano di una serie di rapporti con la parte sana della società, con un ruolo non banale svolto da alcune logge massoniche.
Questi rapporti in Calabria e in Sicilia sono concorso esterno, qui ancora no e il perché sta nel fatto che la Dda non riesce ancora a dimostrare che la parte sana della società collabora con la parte malata, consapevole di aiutare un disegno criminale di stretto controllo del territorio. Mancano due prove: 1) la dimostrazione dell’esistenza da parte dei malviventi di un disegno articolato di controllo del territorio (al momento chi fa rapine e spaccia droga cerca soldi e non potere); 2) la dimostrazione che l’eventuale violazione dei rapporti dei sodalizi malavitosi sarebbe seguita da una sanzione violenta ordinata da un potere illecito, gerarchicamente costituito e riconosciuto.
La Dda, però, ha avvertito l’aria e si è accorta che i linguaggi e le categorie morali del mondo di mezzo, tra lecito e illecito, sono meno ingenui di quel che sembrano.
Tutto sta qui: gli investigatori sentono il crescere di un humus favorevole al salto di qualità, cioè al controllo politico e militare del territorio da parte di organizzazioni criminali, ma non hanno le prove che questo sia già avvenuto e la giustizia preventiva non esiste.
È anche una questione di linguaggi: la Dda parla di ‘complici’, gli interessati di ‘amici’; la Dda di ‘reati’ e gli interessati di ‘aiuti’; la Dda di ‘summit’, gli interessati di ‘cene’; la Dda sente puzza di soldi, fucili e droga e gli interessati di forchette e maialetti.
Nel gioco degli specchi di queste drammatiche situazioni, il nemico è la superficialità, l’amico è l’esattezza e lo scrupolo.
Perfetta l’analisi di Ale. Complimenti
Mettiamo che oggi non lo sia. Potrebbe diventarlo in un futuro prossimo?
Se sono vere e saranno provate le vicende dei pedinamenti allo scopo di intimidire che hanno portato alcune “vittime di pedinamento” a trovare “protezione” negli stessi pedinatori, beh almeno il metodo, e il risultato, non sarebbero poi così lontani da quello mafioso. Che queste modalità stiano facendo da terreno fertile per lo sviluppo di un reale sistema mafioso?
Credo che l’osservata capacità modulare della criminalità sarda derivi dall’assenza di organizzazione gerarchica e strutturata e che la solidità delle relazioni personali derivi da una sorta di solidarietà meccanica, tipica dei piccoli gruppi.
Sono abbastanza convinto che in Sardegna gli atti illeciti tendano ad essere compiuti da gruppi ristretti costituiti per singole azioni. Di volta in volta altri gruppi ristretti possono trarre spunto e imitare le azioni più efficaci creando una sorta di istituzionalismo dell’attività malavitosa, tuttavia, per quanto i gruppi possano cooperare, condividere competenze, persone, mezzi o informazioni essi tendono a rimanere temporanei e distinti.
All’interno dei gruppi, esiste evidentemente una suddivisione dei compiti ed emergono dei leader. Esiste una organizzazione in senso lato, senza che esista una gerarchia, tanto meno una gerarchia militare. Le leadership vengono riconosciute nell’ambito delle azioni intraprese e non in senso assoluto. Per quanto ad un gruppo possano essere note le azioni dell’altro, nessuno è in grado di imporre o impedire ad altri di costituirsi in gruppo e compiere le proprie avventure criminali.
Un professore buontempone era solito dire che le imprese sarde che funzionano sono gestite da un numero dispari minore di tre. In tale affermazione ci sono elementi di verità, validi anche per la criminalità, e connessi con la tendenza all’individualismo. Se si aggiunge un diffuso atteggiamento egualitarista, si può ragionare su quanto un sistema mafioso strettamente inteso possa trovare terreno fertile in Sardegna. A me pare che questi elementi rendano difficilmente attuabile un controllo del territorio di tipo mafioso.
Ora che personaggi legati al mondo della politica partecipino a degli spuntini insieme a personaggi con alle spalle un curriculum criminale non stupisce. D’altronde la picchettata è un must per l’azione politica di questi tempi sciagurati. Tuttavia, non esistendo gruppi stabili, il rapporto tra criminali e politici avviene a livello di singoli e c’è da ritenere che esso sia legato per lo più allo scambio elettorale e alla tutela di interessi particolari.
Magari qualcuno avrà provato emozioni esotiche, pensato di poter acquisire potere o protezione da queste frequentazioni. In ogni caso, fermo restando il compito degli inquirenti di verificare gli atti e i fatti concreti con esattezza e scrupolo, mi viene da pensare che attribuire una volontà mafiosa a certi personaggi significhi sopravvalutarli e anche qualora tale volontà fosse presente, tra il dire e il fare c’è di mezzo un mare fatto di individualismo ed egualitarismo.
Cosa diversa è considerare mafiosa una politica, non solo sarda, che priva di idee forza e di personale all’altezza del ruolo pedagogico proprio di una classe dirigente, esercita il proprio ruolo nell’intento di preservarlo grazie al perseguimento la tutela di interessi particolari che possono garantire un ritorno diretto in termini elettorali. Più che nell’ambito della mafia siamo in quello del mai sopito familismo amorale spiegato da Banfield.
C’è sempre un circuito di soldi e potere. Forse non si tratta di amministrazione estesa del territorio, ma di certo anche in Sardegna si ha una gestione mafiosa di alcune agenzie.
Posso dirlo con certezza: no. Non sono preposto ad indagini, nè ad attivarle. Guardo, osservo, patisco come cittadino.