Il 28 Rapporto sull’economia della Sardegna, elaborato dal Crenos, centro universitario cagliaritano che tutto può essere definito meno che ‘socialista’, o ‘liberal-socialista’, e che dunque non è sospettabile di moralismi ideologici o di pentimenti capitalistico-sentimentali (i sentimenti stanno al Crenos come il morbillo al sesso), ha dedicato delle pagine implacabili e giuste al rapporto tra la povertà e l’utilizzo, a mio avviso eccessivamente e ingiustificatamente diffuso in Sardegna, dei contratti di lavoro temporanei.
È certamente una coincidenza, ma felice, il fatto che queste indagini e queste conclusioni scientifiche (che la Guardia di Finanza farebbe bene a leggere e studiare anziché ascoltare chiacchiere e delazioni invidiopartenogenite) siano state pubblicate mentre veniva scoperto, sempre dalla Guardia di Finanza, e nascosto dai media, l’uso delle cooperative – non poche partenopee, ma nella storia non ne sono mancate e non ne mancano di sarde – per fornire ‘schiavi moderni sardonativi’ a grandi gruppi dell’agroalimentare e della distribuzione organizzata.
Cosa scrive il Crenos?
Faccio un eloquente taglia e incolla delle parti notevoli (questi Rapporti vengono scritti, in tutto il mondo, in parte per essere letti e capiti, in parte per i concorsi universitari dove si parla una lingua per iniziati, criptata in entrata e in uscita. La breve antologia che segue è tratta dalla parte intellegibile).
Povertà: “A partire dall’inizio del nuovo millennio, la percentuale di famiglie in povertà relativa in Sardegna è aumentata progressivamente passando dal 9,7% del 2002 al 19% nel 2018. Il 2019 registra, in controtendenza, una percentuale pari al 12,8%, comunque ben superiore alle cifre di inizio secolo. Al momento della scrittura, l’Istat non ha ancora pubblicato i dati per il 2020, ma la presenza della pandemia non fa ben sperare. La Sardegna, come le altre regioni meridionali, ha sempre valori al di sopra della media nazionale”.
Liberalizzazione e schiavitù temporanea “Fino al 2001 la stipula di un contratto a tempo determinato era condizionata dall’esistenza di motivazioni specifiche alla necessità di apporre un termine al contratto. Successivamente, la normativa sulla disciplina di tali contratti è stata ampiamente e ripetutamente modificata con l’obiettivo di rafforzare il processo di liberalizzazione. A seguito di questi interventi legislativi, a partire dal 2001 la quota di contratti temporanei sul totale è aumentata progressivamente in Italia. L’evoluzione di questa crescita non è omogenea tra le regioni. La Sardegna ha avuto una percentuale di contratti temporanei superiore alla media nazionale fino al 2012, passando dal 17% del 2000 al 31% del 2018”.
A quale età ci si candida a diventare poveri? “Per approfondire l’aspetto di quanto rilevante siano i fattori età e genere, è stato stimato l’effetto specifico. L’effetto dell’esposizione all’uso diffuso dei contratti temporanei nel mercato del lavoro sul rischio di entrare in povertà vari al variare dell’età. Il rischio di entrare in povertà associato ad una maggiore esposizione all’uso dei contratti temporanei nel mercato del lavoro è maggiore dopo i 35 anni. Si riduce invece per età compresa tra i 20 e i 34 anni. Sostituire un contratto a tempo indeterminato con uno temporaneo in prossimità dei 50 anni comporta una frammentazione della carriera lavorativa a cui l’individuo con dif-ficoltà riesce a fare fronte per evitare una forte perdita reddituale”.
Le donne schiavizzate mentre fanno figli “Facendo una distinzione per genere, si osserva che le donne sono sempre più penalizzate degli uomini. Diversi studi hanno messo in evidenza che una delle determinanti del differenziale salariale di genere è da ricollegarsi al maggiore uso da parte delle donne di contratti di lavoro a tempo parziale, in particolare dopo la nascita del primo figlio. Quello che emerge da questa analisi è la maggiore esposizione ai contratti temporanei delle donne proprio nella fascia d’età dove l’attività lavorativa si accompagna alla gestione dei figli”.
Conclusione La logica del profitto senza limiti sta distruggendo l’umanità. In Sardegna non si fanno più figli per tanti motivi, uno dei quali, però, è l’avidità dei ricchi. E noi, quei pochi che ancora riescono a dire ‘noi’ non stiamo dalla stessa parte di questi famelici distruttori delle vite altrui.
Tecnicamente, purtroppo, per molte aziende il personale è un fattore produttivo al pari di un macchinario. Ma non mi risulta che ai macchinari siano riconosciuti diritti costituzionali.
Spesso la fredda riduzione dei costi, edulcorata con termini quali “ottimizzazione” “efficientamento” ecc., si ottiene sopratutto sulla pellaccia dei lavoratori attraverso il ricorso a contratti a termine e al precariato incentivato dalle norme statali. Continuando così si ritornerà a parlare di classi e di lotta di classe, ma mai delle persone e dei diritti individuali che prescindono dalla classe sociale.
La cosa più triste e alienante è che le politiche attive del lavoro che un tempo molti partiti politici sbandieravano come uno dei loro punti programmatici, sicuramente perchè una delle espressioni più in voga in quel momento, sono state totalmente abbandonate. Sembra quasi che parlare di diritto dei lavoratori, dignità del lavoro, salario equo, come il riconoscimento delle proprie competenze attraverso un lavoro adeguato stia diventando sempre più una blasfemia. Purtroppo, che il lavoro come i lavoratori siano considerati alla stessa stregua di una merce non è un fenomeno così recente. È da anni che si denuncia questa tendenza ed è da anni che l’ascensore sociale ha smesso di funzionare. La Sardegna come nuova fabbrica di manodopera a basso costo?