di Paolo Maninchedda
Bisogna dire che, per la piega scandalosamente bugiarda che sta prendendo il dibattito sul referendum, a parlarne dovrebbero essere Jannacci e Gaber, purtroppo scomparsi. Servirebbe la loro intelligente ironia per mostrare quanta rogna stia sotto le facce truccate che promettono radiosi futuri o impellenti catastrofi.
La prima domanda, sempre la stessa, che in politica occorre farsi è: “«Chi decide per noi?». La seconda: «Perché?»
Chi sta decidendo di che cosa è opportuno parlare durante la campagna elettorale?
Renzi sostiene che non si deve parlare dell’incapacità italiana di produrre ricchezza e della crisi paurosa delle attività produttive. Dice che si deve parlare dell’abolizione del Senato punto e basta (perché sulle Regioni è più prudente, svicola, non si fa stringere su quella solenne porcheria che è il nuovo art.117; sa di avere la coscienza sporca).
Troppo semplice, troppo facile.
L’ordine del giorno della politica non la fa il Gabinetto del Presidente del Consiglio; viene fatto invece dalla realtà e la realtà per l’Italia dice che è uno Stato che produce meno ricchezza di quella di cui ha bisogno, comprendendo nel fabbisogno anche la legittima e naturale possibilità di indebitarsi.
Dice che non produce lavoro.
Dice che non sa attrarre investimenti.
Dice che la metà meridionale del Paese è fuori controllo.
Dice che ha un sistema formativo arretrato che fa acqua da tutte le parti.
Dice che lo Stato è scappato dalle periferie e si è concentrato solo sulle aree urbane.
L’Italia non regge la dimensione di questi problemi, fortemente connessi con la sua sovranità, nonostante mascheri la sua debolezza con le nuvole di Fuksas (no comment) o con le grandi missioni militari all’estero (evidentemente sorrette dal nostro debito pubblico).
Di fronte a questo e ad altro la risposta di Renzi è una rivisitazione in camicia bianca e abito slim della solita vecchia ricetta dell’auotoritarismo italiano: l’Italia va male perché chi governa non ha i poteri sufficienti a trasformare il Paese.
Lo dicevano bene Mussolini e Berlusconi (ma anche Gelli): l’Italia si comanda, non si governa. Cosa sono tutte queste discussioni, suvvia! Dobbiamo cambiare l’Italia, dobbiamo riprenderci il futuro! A noi!
Renzi, ormai incapace di produrre ricchezza, chiede più potere. Antica e pericolosissima ricetta che ha ammorbato anche la Sardegna, al punto che anche noi, con il nostro parere contrario, abbiamo pensato che per governare la sanità avessimo bisogno di un Califfo cui delegare un servizio essenziale come se si trattasse di un Global service. È dal 2004 che l’idea che per essere più efficienti bisogna concentrare potere e creare prepotenti di Stato si è fatta strada e gode di largo consenso. Noi continuiamo a contestarla.
Ciò che contestiamo è il seguente ragionamento. L’Italia è immobile. Bisogna cambiare l’Italia; rendiamo più forte chi la governa. Questo copione renziano è lo stesso del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e de I vecchi e i giovani di Pirandello.
La strada deve essere un’altra.
Bisogna mettere in discussione il modello unitario dello Stato; non regge più uno Stato centrale uguale a se stesso da Aosta a Pantelleria, è una follia. L’Italia non sa di aver bisogno più di diritto, libertà e responsabilità che di potere concentrato; noi sardi lo sappiamo e lo vogliamo. Ed è per questo che ci opponiamo all’impostazione renziana delle riforme.
Ma ancor più ci opponiamo alle semplificazioni e al «Di questo non si parla». Si parla di tutto in politica, di tutto ciò che è pertinente alla domanda centrale del «Chi decide per noi». E se vincesse il Sì coloro che non sanno produrre ricchezza e che vogliono comunque più potere, avranno più potere in campo energetico, turistico, ambientale, culturale, educativo ecc. ecc. Noi non siamo d’accordo. Abbiamo un’idea diversa di Stato: noi lo pensiamo fondato sulla fiducia non sull’autoritarismo. Noi pensiamo che i parlamentari vadano eletti e non nominati. Noi pensiamo che i poteri vadano semplificati, diffusi e controlalti. Noi pensiamo che occorra rafforzare la sfera delle libertà e responsabilità individuali perché crediamo che il binomio libertà-responsabilità sia il cuore dell’Europa democratica. Ma soprattutto noi pensiamo che chi non sa produrre ricchezza, fiducia e benessere, non debba chiedere più potere.