Il 2 febbraio è apparso sulla Nuova Sardegna un articolo di Mauro Maxia in cui si prospetta anche l’etimologia del mio cognome. Sostiene Maxia che esso «è documentato con la forma Maninquedda a Sassari a partire dal 1600 […] mentre la forma attuale risale al 1800. Rappresenta una variante del cognome Manichedda che in origine è documentato come nome personale nel condaghe di San Nicola di Trullas […] Nel 1388 questo nome si era ormai trasformato in cognome […] Oltre che la forma Maninchedda, presenta la variante Manighedda, che è formata dal termine màniga ‘manica’ e che corrisponde al cognome Màniga […] Quanto al significato, alla base ha probabilmente un originario soprannome che secondo Massimo Pittau […] corrisponde a maninchèdda ‘parte del telaio che entra inferiormente dietro lo stipite destro’ o, più semplicemente, ‘manovella’ o ‘piccolo manico, maniglietta’» (ho inserito io i corsivi).
Qualche giorno dopo l’intervento di Maxia, sul quotidiano di Sassari è stata pubblicata una mia lettera in cui dissentivo da queste acrobatiche tesi, con quel tanto di ironia che simili speculazioni sollecitano:
1) rilevavo che la prima attestazione del cognome, stando a quello che Maxia stesso scrive, è da considerarsi Maninquedda (nel 1600), dal momento che la scrittura iberica -que– equivale a quella oggi diffusa -che-;
2) mi interrogavo sulle insondabili ragioni per le quali un individuo potesse ricevere il soprannome da una «parte del telaio che entra inferiormente dietro lo stipite destro»: forse perché si era specializzato nella fabbricazione di quel particolare arnese, o per la sua rigidità articolare, paragonata a quella di un pezzo del telaio? E neppure mi pareva credibile l’ipotesi di un significato di partenza ‘manovella’ o ‘piccolo manico, maniglietta’: in questo caso, infatti, Maxia e Pittau ritengono forse che l’individuo originariamente soprannominato Maninchedda o sim. fosse esperto nel girare manovelle? Tutte ipotesi goffamente fantasiose e libresche, a mio avviso.
3) Fornivo quindi una mia proposta: maninchedda, variante di manichedda, manighedda (con una –n- non etimologica non rara in sardo: cfr. Wagner, Fonetica storica, § 396) deriva da manu ‘mano’ (così come conchighedda o conchixedda da conca etc.) e, come si sa, vale ‘manina’. L’origine soprannominale del mio cognome si spiegherebbe facilmente in relazione a un difetto fisico del soprannominato. Qui aggiungo soltanto che l’importanza dei difetti fisici per l’attribuzione di soprannomi, poi divenuti cognomi, è risaputa (si pensi ai vari Guerci e Gobbi).
Maxia e Pittau hanno ritenuto di dover replicare. Secondo Maxia, infatti, circa la prima attestazione del cognome avrei frainteso le sue argomentazioni, perché – asserisce – il riferimento era a forme grafiche e non fonetiche: mi domando allora perché ha scritto «forma attuale» (del cognome) e non, come avrebbe dovuto, forma grafica attuale (ed è noto che i linguisti ragionano di suoni, non di lettere!).
Poi, prosegue Maxia, «come dimostrano le fonti, Manikella era un nome femminile. Questo induce a ritenerlo un diminutivo di Manica che è documentato nello stesso periodo (Condaghe di Bonarcado, 172)». Dunque, viene da chiedersi, Maxia esclude una derivazione da manu (lat. manus) perché ritiene manu (e lat. manus) maschile? Inoltre, per la precisione, il Manika presente nel Condaghe di Santa Maria di Bonarcado è riferito a un uomo (Comita Manika).
Ancora, secondo Maxia, «oggi manighedda e maninchedda significano anche ‘piccola mano’ così come domighedda significa ‘piccola casa’. Ma nei buoni dizionari prevale ‘piccola manica, piccolo manico’, ‘parte del telaio’». Invito Maxia a cercare la voce manighedda nei vocabolari di Spano e Casu, e in quello di Puddu troverà a lemma anche maninchèdha quale dim. di manu: Wagner, nel Dizionario etimologico sardo, non la cita come diminutivo di manu allo stesso modo che non cita domighedda quale (ovvio) diminutivo di domo (la materia della formazione delle parole in sardo è sviluppata piuttosto nella sua Historische Wortbildungslehre des Sardischen). Ma questo non implica alcunché, ovviamente, men che meno le conseguenze che ne trae abusivamente Maxia.
Infine, senza che con la questione in discussione abbia niente a che fare, Maxia mi rimprovera un errore che avrei commesso nell’edizione del Condaghe di San Michele Salvennor: mi fido, non ho problema ad ammettere i miei errori. In tema di sfondoni, tuttavia, mi proclamo un dilettante al cospetto di altri: Maxia, facendo l’edizione del cosiddetto Condaghe di Luogosanto, a p. 246 titola un paragrafo, con tanto di grassetto, Principali mende apportate al testo, quasi che chi cura l’edizione di un testo le mende le debba inserire, anziché eliminarle (e se l’editore di un testo non sa cosa sia l’emendatio, fa bene a cambiare mestiere). Chapeau!
Vengo ora a Massimo Pittau. Capisco anche che abbia poco da argomentare e pure lui, come Maxia, eviti di rispondere alla mia fondamentale obiezione che ben difficilmente un soprannome avrebbe potuto nascere dalla denominazione di una parte del telaio o da una ‘manovella’ o sim.: sarebbe bastato però tacere, anziché cadere in una scomposta invettiva. Pittau si diverta a fare ciò che ha sempre fatto: etimologie fantalinguistiche, come quella con cui è riuscito ad accostare la voce tzicchi (il pane) al francese chic; poi, accortosi di averla sparata grossa anche per i suoi standard, ha pensato prudentemente di ripiegare su una voce etrusca, a dimostrare di avere le idee chiare… Tanto di cappello anche a lui!
Alcune precisazioni, infine: nel giudicare della bontà di una tesi linguistica, non mi faccio condizionare né dal fatto che lo studioso che ne è l’autore abbia conseguito l’abilitazione scientifica nazionale per poter partecipare ai concorsi nazionali a professore associato di Linguistica italiana, né dal fatto che il medesimo studioso non abbia conseguito l’abilitazione di pari grado per Glottologia e linguistica; non conta ‘quanto’ si è scritto di linguistica sarda, ma cosa. Ma sono ovvietà. Detto questo, sono una persona tranquilla che non cerca scontri fine a se stessi e cerco di avere pietà e di non evocare quanti, presi dall’ardore accademico e dall’invidia umana, hanno prodotto un tasso di veleno tale in alcuni libri da non reggere la disperazione che ne è derivata. Se la mia ironia non era esplicita ed è sembrata sarcasmo, lavorerò perché il caso non si ripeta. Tuttavia invito tutti i colleghi a tener presente che non sono pane adatto per chi voglia aguzzarsi i denti sulla mia pelle.