di Paolo Maninchedda
In che anno siamo? Iniziamo da qui.
Siamo forse nel dopoguerra?
No, siamo 71 anni dopo. Che significa?
Significa che gli analfabeti in Sardegna praticamente non esistono; significa che abbiamo migliaia di laureati e di diplomati, una buona minoranza dei quali,sufficiente alle funzioni di governo della Sardegna, hanno più successo altrove che in patria; significa che ogni suggestione industrialistica e dirigistica è finita; significa che la terra, oggi, non è più sinonimo di arretratezza contadina ma di opportunità e di salute; significa che il sapere non è più distinto in scientifico e umanistico, ma è uno, con il mondo delle scienze esatte che guarda all’immaginazione come alla migliore delle sue risorse (sicut Einstein docet); significa che l’innocenza della Sinistra e l’arroganza della Destra italiane sono finite con una guerra – gli anni del terrorismo – e con un omicidio di Stato, quello di Moro; significa che noi abbiamo visto fallire gli anni dell’Autonomia, trascorsi in dissipazioni e trionfalismi, in egemonie oligarchiche e in carriere personali; significa che viviamo in un tempo di grandi manipolazioni e di grandi sofferenze; significa che è più alta la coscienza del dolore, della sua irriducibile irrazionalità e ingiustizia; significa che la morte ancora ci perseguita ma che è più alta la volontà dell’uomo di essere libero e immortale; significa che la cultura ha dei doveri, oggi più di ieri, perché sappiamo di più di quanto non sapessimo ieri.
Ripartiamo da qui: essere uomini colti, istruiti, significa sentire di dover essere riconoscenti non solo al sistema familiare e amicale che ci ha resi tali, ma anche al sistema sociale che ci ha sostenuto, che ha aspettato che maturassimo, che ci ha dato il tempo di diventare più utili al nostro prossimo e che adesso chiede, direi pretende, che si restituisca con generosità.
È tempo di rendere; è sempre tempo di ‘morire’ per generare. Una volta che una persona decide di studiare, sta decidendo di darsi agli altri. Machado riprende in una sua poesia un’immagine evangelica: il soldino dell’anima si perde se non si dà. La vita, l’unica vera filosofia, è un darsi o un perdersi. Non ci sono alternative.
Noi abbiamo il dovere del sacrificio, della vita spesa e non trattenuta o in uno sdegnoso e sdegnato isolamento, o in un risentito disprezzo o, peggio, nell’avarizia morale di chi ha in dispetto il mondo.
Nel 1956 vennero fissati in un articolo, che conosco a memoria, i termini delle malattie morali dei politici e degli intellettuali sardi: il regionalismo chiuso e il cosmopolitismo di maniera, entrambi grandi veicoli della più grande colpa dell’intellettuale sardo (quella contro cui spese la sua vita Gramsci): l’evasione, la fuga dal dovere di sapere con esattezza e di agire con coscienza, fino anche a sacrifici enormi, inconcepibili se non nutriti da un grande slancio affettivo per il mondo, senza quella che il censurato mondo simbolico cattolico chiama con la più calda delle parole, misericordia.
Il tema è questo: noi ci siamo candidati a guidare la Sardegna perché la amiamo. Noi non la disprezziamo. Noi non crediamo che sia priva delle forze intellettuali e morali per compiere se stessa. Noi non la vediamo rozza e ignorante. Noi non pensiamo che abbia più demeriti di altri per cui debba passare in una sorta di percorso punitivo-redentivo privo di qualsiasi legittimazione democratica e di qualsiasi base morale. Per questo siamo mesi che ripetiamo che crediamo sia ingiusto, profondamente ingiusto e immotivato precludere ai sardi che hanno studiato, ai sardi che hanno servito correttamente la Sardegna, ai sardi che non si sono mai sottratti a valutazioni, esami, verifiche e controlli, l’accesso alle sfide più grandi. Consideriamo ingiusto e umiliante sottoporre i sardi alle giuste procedure concorsuali per i ruoli apicali e esentare i ruoli fiduciari dotati di ancora più alta responsabilità dal rigore delle valutazioni comparative e dunque non reagire dinanzi a scelte palesemente inadeguate ai compiti e agli obiettivi assegnati. Noi ripetiamo da mesi che il pregiudizio ideologico che esclude i sardi da certe funzioni è cosmopolitismo di maniera, è evasione dal dovere del riconoscimento del valore delle persone che hanno faticato duramente per costruire la propria formazione.
I fatti sembrano dire che noi e il presidente Pigliaru siamo su questi temi su posizioni differenti. Ne prendiamo atto; stiamo attuando insieme il patto con gli elettori (che comprende la nostra Agenzia Sarda delle Entrate) e continueremo a farlo, ma stiamo scoprendo orizzonti culturali diversi.
Noi crediamo realmente che la politica sia quale la cultura vuole che essa sia, perché la cultura non è altro che coscienza del proprio agire nella storia. Eppure si registra una distanza tra la conoscenza e l’azione che è sempre più immotivata quando gli elettori scelgono a dirigere chi per l’appunto è noto per sapere. Noi siamo la Giunta dei professori; il nostro dovere di trasformazione è multiplo rispetto a quello di una Giunta di uomini politici ‘puri’. Eppure sembriamo inibiti alla decisione e lo siamo per un rinuncia costante al nostro dovere di decidere e una delega permanente di funzioni di governo ad altre istituzioni e/o apparati e/o persone. Forse è opportuno citare: «La considerazione che una classe politica fa di una classe intellettuale non è altro a sua volta che un modo particolare di essere della considerazione che la classe intellettuale fa di se medesima; l’intervallo esistente tra classe politica e classe intellettuale non è altro che la diretta fatale conseguenza della incapacità della classe intellettuale ad esprimersi come classe dirigente nel suo complesso e della rinuncia che essa classe compie nei confronti di se medesima alienando ad altri una parte della sua funzione. In effetti, rifiutandosi al dovere di affrontare alcuni problemi e di risolverli, la cultura sarda lascia agli altri di deciderli come è fatale che essi vengano decisi quando non sono stati ampiamente e adeguatamente dibattuti e risolti; cioè occasionalmente, accidentalmente ovvero sotto la pressione di circostanze e di fatti accettati nella loro roiginaria brutalità e quindi più con riguardo al conseguimento di alcuni immediati risultati pratici senza durata che a quelle questioni di fondo che viceversa dovrebbero essere affrontate perché i risultati emergenti da una azione “politica” possano poi metter capo a nuove e durature situazioni».
La maggiore delega impropria di funzioni di governo che si sta realizzando è verso la struttura amministrativa regionale. L’inibizione dell’azione politica è proporzionale all’ipertrofia dei tempi e delle decisioni della struttura. Tutto si blocca nel porto delle nebbie dei tempi transitori tra una decisione e il fatto che la realizza.
Noi continuiamo a porre la domanda centrale: «Chi decide per noi?».
In questo momento decide più un direttore di servizio che un assessore. La distinzione dei compiti di indirizzo da quelli di gestione si sta traducendo nella vaporizzazione degli indirizzi e nel plumbeo irrigidirsi della gestione. Questo non viene perdonato alla Giunta che, almeno sulla carta, ha più competenze al suo interno di quante ve ne siano nel sistema degli uffici che dirige. Importanti misure del Por, importanti atti programmatori, importanti appalti, sono rallentati dal dominio amministrativo che pochi uffici esercitano su tutto e su tutti, in una sorta di governo ombra irresponsabile di fronte agli elettori che sta consumando come un bruco i margini di credibilità residui.
Noi stiamo ripetendo da mesi che occorre esercitare il dovere della decisione. Non abbiamo il potere di incidere su questi temi, ma sentiamo il diritto/dovere di dissentire da questa latitanza della decisione.
Come pure il tema del «Chi decide per noi?» resta incidente nel modo di concepire i rapporti col governo italiano.
Nei rapporti istituzionali ha un grande significato l’avvenuto varo delle norme di attuazione dell’articolo 8 dello Statuto. Adesso occorre coordinarle con la norma sull’Agenzia Sarda delle Entrate e con i decreti per l’inversione del gettito.
Come pure è importante e significativo il Patto per la Sardegna firmato col Governo, perché è preciso, non una generica pattuizione che affida a atti attuativi successivi la sua realizzazione lasciandola esposta al cambio di umore dei governi (come sono state spesso le intese tra la Sardegna e il Governo).
Come pure è importante il documento sull’insularità consegnato a Renzi, perché ha creato un perimetro su un tema prima non parametrato né adeguatamente definito. È in virtù di quel documento che il governo deve tirare fuori i soldi della continuità territoriale e della metanizzazione. Data però l’esperienza di programmatica ostilità alla coerenza da parte dei governi italiani, occorrerebbe procedimentalizzare quel documento, tradurlo in un atto votato dalla Giunta e dal Consiglio, provocatoriamente notificato all’Unione Europea. Perché il tema evitato, rinviato, in fin dei conti ritenuto scabroso e ancora non aggredito, pur essendo fortemente connesso con la libertà e la sovranità, è quello fiscale. Uno stesso fisco in Italia e in Sardegna è sbagliato. Bisogna essere forti e porre questo tema, perché è centrale per la nostra capacità di aumentare la ricchezza prodotta e alimentare i nostri servizi.
Proprio la grande rimozione del tema fiscale svela che tutto il confronto col Governo (non parliamo dell’ignobile politica governativa relativa alle servitù militari, tutta orientata a nascondere segreti di Pulcinella e gravi responsabilità, a occupare e consumare territorio e mai a produrre reale difesa, reale ricchezza, tecnologia, lavoro e formazione) è avvenuto in una cornice di rapporti politici culturalmente non meditata e fragile, nella quale è incidente, troppo incidente, la sovrapposizione della natura dei rapporti istituzionali tra il Governo italiano e la Sardegna, con quella dei rapporti politici maturati e maturandi all’interno del partito di maggioranza relativa. Ciò che è naturalmente dialettico in una logica istituzionale diviene naturalmente subordinato in una logica di militanza di partito, con gerarchie informali tanto incidenti quanto non esplicite. Per questo noi stiamo costantemente richiamando gli alleati e il Presidente al dovere di solidarietà nazionale dei sardi, al “Prima la Sardegna”; diversamente andrà a ricrearsi lo schema che fece grandi i Segni e i Cossiga (ma proporzionalmente non la Sardegna) secondo il quale una regione viene infeudata a un plenipotenziario la cui legittimazione consiste nella prossimità al capo del Governo. Noi giudichiamo questo schema punitivo, baronale, penalizzante e umiliante e quindi intendiamo contrastarlo.
Ho pensato di portare a un livello comprensibile di coscienza queste valutazioni, perché i momenti dialettici in politica non possono essere lasciati all’indeterminatezza delle intuizioni. Noi preferiamo definirci in modo netto, anche quando questo comporta dolore e fatica.
Comments on “Questi siamo noi”
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Come al solito Paolo Maninchedda con la sua logica stringente e incalzante ci offre uno spaccato della nostra realtà che impegna tutti noi ad agire di conseguenza.
Con questo spirito mi permetto di dare in contributo alla discussione sulla base di esperienze dirette che derivano dall’aver maturato una esperienza amministrativa per me importante e significativa.
Se è verò come è vero, e Paolo lo sottolinea senza tentennamenti, che uno dei peggiori mali che afflige la nostra società sia rappresentato dalla farraginosità e lentezza della burocrazia è necessario mettere in campo ogni iniziativa per debellare questo male oscuro.
A mio parere l’orgia di potere che infesta la burocrazia delle pubbliche amministrazione ha una precisa collocazione temporale che coincide con l’entrata in vigore della Legge Bassanini.Con tale legge, nata con le più nobili intenzioni ( moralizzare la vita pubblica – velocizzare i processi amministrativi etc) si è trasferita in capo alla dirigenza la potestà di attivare gli atti amministrativi conseguenti alle azioni politiche.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti e non può sfuggire l’aumento della corruzione nell’ambito della dirigenza( si potrebbe dire ricordando il detto Andreottiano che il potere logora chi non ce l’ha e corrompe chi ce l’ha).
Io ritengo che la Sardegna, in quanto regione autonoma con un quadro normativo di rango costituzionale possa chiedere l’inapplicabilità di tale norma e restituire alla politica il potere e le responsabilità che le competono anche perchè è l’unica che risponde ai cittadini mentre la burocrazia , di fatto,risponde solo a se stessa.
Io credo altresì che lo” sganciamento” dal treno italico debba cominciare da qui per proseguire poi su altri temi altrettanto delicati e importanti.Solo facendo apprezzare ai sardi i vantaggi di una vera autonomia sarà possibile avviare con successo altre rivendicazioni di alto profilo.
…chi decide per noi? Le valutazioni del Partito dei Sardi – che è per i sardi – introduce a considerazioni valide a ogni livello di governo. E’ un documento che saggia la visione dei dirigenti del partito e penso debba essere il Manifesto per chi ambisce al Governo nazionale. Quanto alla supposta illuminata squadra dirigenziale, incaricata ex abrupto con rigoroso riguardo territoriale, e che sa di discriminazione, penso valga oramai la pena attendere i risultati della gestione senza esentare alcuno in caso di mancato o parziale conseguimento degli obiettivi della riforma sanitaria in Sardegna, men che meno al plenipotenziario investito di mettere ordine ai conti della sanità nella Regione Sardegna e razionalizzare i servizi. La corrente anti-politica, del resto, ma anche tutta la legislazione allignata alla fittizia separazione delle sfere di di indirizzo politico e direzione amministrativa, imputano al politico gran parte delle responsabilità nello sfacelo dei conti pubblici. Il Presidente, è evidente, aderisce a questa corrente e lo fa in modo radicale. Attendiamo i risultati, ovviamente di breve termine ( 1 esercizio ) e lui come altri eventualmente chiamati ad assumersi le responsabilità ( politiche ).
La nota di cui sopra è un programma politico amministrativo che non ha confronti con altre forze politiche.Il solo tema del fisco rappresenta una vera svolta in quanto vengono coinvolti i cittadini per un fisco più giusto ma allo stesso tempo responsabile.Ma è altrettanto vero che il fisco italiano non può essere calato in Sardegna come avviene oggi.E’illuminante il servizio della trasmissione Rai Reporter di questa settimana:sia in Africa che a New York sono stati adottati sistemi fiscali volti ad attirare imprese e creare nuova occupazione con zone franche ed incentivi.Quello che a noi é impedito e che rappresenta la nostra rovina.