Giorni fa, a Belve, Concita de Gregorio ha parlato della sua malattia. O meglio: non ne ha parlato, ha detto solo che per la chemioterapia ha perso i capelli e porta una parrucca.
È stato così che una donna forte e affascinante, che all’apparenza sembra durissima, adamantina, implacabile e inflessibile, si è rivelata come tutti noi esposta ai casi e ai drammi della vita. Sentirle dire “i miei capelli di una volta”, con una inflessione di voce nostalgica e tenera, è stato drammatico e struggente.
La parrucca degli oncologici è uno spartiacque in una famiglia.
Prima di vederla indossata, c’è lo strazio della caduta dei capelli. C’è lo stupore di vederli inaspettati nella mano passata per accarezzare il capo.
C’è il pianto cui non c’è rimedio.
C’è l’angoscia di quelle teste lucide, poggiate sui cuscini, spesso con una cuffia a proteggerle dal freddo. C’è la pelle del capo sottile e diafana, sconosciuta ormai da tempo.
Solo dopo arriva la parrucca.
La De Gregorio ha detto di aver taciuto la malattia e messo la parrucca per difendersi dalla commiserazione.
Parole sante.
La gente, quando una persona è malata, da un lato soccorre, dall’altro isola e inconsapevolmente assume un’espressione che per gli interessati e per i parenti è loquace: “Ce la farà?”.
Chi si ammala gravemente, è colmo di domande e di rabbia verso il destino. Vive ogni istante della giornata la drammatica domanda sul senso dell’esistenza. Si accorge tragicamente che in questo mondo sembra non contare la vita del singolo, ma solo il meccanismo della vita di tutti; mentre ognuno può solo sentire la propria scemare a andar via, quella di tutti, col suo chiasso sguaiato naturale, va beffardamente e indifferentemente avanti. Sai che magra consolazione che la vita di tutti sia destinata a finire: l’ecatombe generale non spiega la fine personale!
La parrucca è una maschera, è sacrosanto teatro, è un trucco che riconduce tutti a normale umanità. Noi non siamo capaci di vederci colpiti, feriti, indeboliti. Dobbiamo abituarci e dobbiamo farlo senza che gli altri se ne accorgano, diversamente ti azzannano anche quando vorrebbero consolarti.
Poi le parrucche, se le cose sono andate bene, si dismettono, ma la lezione resta: una piccola maschera, talvolta, aiuta l’anima.
Non sono d’ accordo. Ho avuto il cancro e sono ancora in cura anche se per stavolta mi pare di avercela fatta. Non ho visto sguardi di commiserazione, neppure uno . Ho visto persone preoccupate, certo,ma la commiserazione mai!!!!
E per tutto il periodo della chemio ho indossato la mia malattia perché dietro c’è forza e disperazione,rabbia e dolore ma tantissima dignità e non de va e esserci nessuna vergogna ad ammalarsi
Certi drammi sono personali,e possono aiutare solo le persone care che realmente ti vogliono bene.
Ben venga la parrucca per non lasciare spazio alla commiserazione della gente che sicuramente non è di conforto ma aggrava la rabbia e la disperazione di chi riceve una diagnosi di cancro.
Per i capelli mi permetto solo di far presente che a favore di tutte le donne che affrontano la chemio alopecizzante esiste una soluzione che consente di evitare tutto quanto è stato scritto relativamente alla perdita.
La tricoprotesi è appositamente congeniata per tempistica e per soluzione per questa specifica fattispecie.
È solo una informazione a favore delle donne.
Vero , certi dolori bisogna viverli solo con se stessi e con persone che ti amano davvero.
Per questo vale la pena vivere con la maggiore dignità e onestà intellettuale possibile e con la minore miserabilita’ possibile, per potersi dire quando arrivano quei momenti, e arrivano per tutti, io ci ho messo l’anima
Anch’io ho vissuto questo”dramma ” a metà perché ho fatto una sperimentazione in cui la chemio non ti priva di tutti i capelli ma solo te li dirada molto. QUINDI non sapendo come relazionarmi con l’esterno ho fatto finta di niente e ho continuato a uscire così com’ero…..con gli sguardi fin troppo loquaci di chi incontravo. È stata dura e non facile ma ora sono totalmente sicura di me e guardo solo avanti verso il futuro che non so’cosa mi riserverà !
… ti azzannano anche quando vorrebbero consolarti.
Quanta verità.
Su chi contat est su sensu de sa vida de su cristianu, si dhu cricaus e cricaus de dhu cumprèndhere e coltivare, a diferéntzia de is matas e de is animales ca noso seus meda prus e àteru de una “massa” biológica; e a dónnia modu, si no seus mortos o dormios camminandho, sa vida est isperàntzia, fide e caridade, su chi su catechismu católicu narat “virtudes teologales”, e no funt cussu ca dhas ant individuadas is “teòlogos”, ma ca funt sa vida.
Totu s’àteru est morte: chentza isperàntzia, fide e caridade no si campat, si morit, e fintzas bocheus sa vida.
Iaus a èssere fintzes in dónnia cunditzione cuntentos de su sensu de sa vida, su èssere, su esístere: assinuncas iaus a èssere un púngiu de pruine.
E invece seus personas, “màscaras” eja: ma de ite e po ite?
Candho, a note, in sa lugh’e su sentidu,
bido un’ungra ’e universu e pesso a Tie,
o Segnore, m’ispanto ’e s’Infinidu:
pimpiridas chi parent un’istedhu
sunt galàssias chi mai mente umana
no contat e ne mai at a contare
e sunt, prus chi no parent, pimpirida!
De pimpirida andhendhe in pimpirida,
de Terra e Sole inoghe as fatu a mie,
pimpirida infinida. E pesso a Tie,
Creadore in eternu Soberanu!
Sa mente est iscunfusa e isco e creo
chi tra nàschida e morte de sa Terra,
si sas mentes umanas fint tot’una,
pimpirida infinida e iscunfusa
fit che a su prus pagu chi so deo!
Epuru in dainanti mi l’as postu,
mi ndhe as bogadu, e postu mi as de fronte:
Ex sisto!, ex sisto!, e so deo! So inoghe!
E peràula dadu mi as e boghe,
pimpirida infinida e posta in fua
abbia a Tie, pro s’Infinidade tua!