Ieri, Il Corriere della Sera e La Stampa hanno dato conto di un provvedimento del Gip di Reggio Emilia, su richiesta della Procura, che ha colpito assistenti sociali di alcuni comuni del Nord Italia, nonché una Onlus specializzata nel riconoscimento e nel contrasto agli abusi su minori, accusati di aver artificiosamente costruito i presupposti per l’allontanamento di decine di minori dal nucleo familiare d’origine e il loro affidamento ad altre famiglie.
La Stampa ha parlato della costruzione di «un’opera sistematica di «false relazioni» ai tribunali, con disegni di bambini manipolati ad arte per far credere ai giudici l’esistenza di violenze mai avvenute, con metodi terapeutici spinti con fervore al di là dei confini della scienza per dare la caccia ai fantasmi inesistenti, con l’impiego di «apparecchiature elettriche» spacciate per «macchina della verità». Il risultato è l’epilogo tragico. In un caso, uno dei bambini sottratti per presunti abusi, finisce per essere veramente abusato da un cugino, nell’ambito della famiglia affidataria. Anche altri nuclei familiari, compresa la coppia di donne, di cui una molto amica della responsabile dei servizi sociali, sono indagati per lesioni che il Gip qualifica in gravemente colpose e non dolose secondo l’impostazione della procura – per aver «inculcato» nei minori assistiti «falsi ricordi», alterando così il loro equilibrio fisico».
Il Corriere riporta l’intercettazione di un colloquio tra la bambina A e la psicologa indagata: «A interrogare la bambina tolta ai genitori naturali e affidata a una coppia di donne, nell’ottobre scorso, c’erano le due nuove mamme e la psicoterapeuta, che poneva le domande. La bambina, che chiameremo A., si lamentava di non avere più visto il padre, e la dottoressa le dice: «Ma non ti ricordi che hai detto che non lo volevi più rivedere?» A.: «Non ho detto questo». Le due donne affidatarie intervengono per sostenere il contrario, ma A. insiste: «Io non ho detto che non volevo vederlo». Il confronto va avanti a lungo, con le adulte impegnate a far «confessare» la bambina e A. che resiste. Anzi, spiega che le piacerebbe reincontrare i veri genitori: «Ogni tanto mi capita di piangere perché mi mancavano gli abbracci del papà…». La psicologa prova a stimolare la memoria di A.: «Avevi paura che ti facessero del male… Me lo hai detto, ti ricordi?». Ma A. non ricorda: «Quando?». Un’altra circostanza è ancora più avvilente e sconcertante: “In un’altra circostanza una psicologa del servizio di neuropsichiatria infantile della Asl riferisce che la bambina B. le ha confidato che l’ex convivente della madre a cui era stata sottratta la toccava nelle parti intime. A corredo della relazione allega due disegni: uno certamente fatto da B., di un uomo con la barba e senza mani; un altro in cui lo stesso uomo era «accanto a un’altra figura, con le proprie mani allungate all’altezza della zona genitale della citata seconda figura». Un’ aggiunta, secondo l’accusa, fatta «personalmente» dalla psicologa per avvalorare quanto affermato nella relazione».
Anche le cronache della Sardegna vanno arricchendosi anno dopo anno di errori giudiziari di allontanamento di minori che sfociano in tragedie familiari. La materia è difficile e delicata, ma proprio per questo non dovrebbe essere gestita come un’ordinaria faccenda burocratica. Non solo: i giudici devono avere consapevolezza che il mondo è veramente piccolo, che spesso basta un niente perché in un ambiente chiuso e professionalmente specializzato si sviluppino degli ideologismi che sfociano in automatismi, e poi, lentamente, in schieramenti culturali e educativi e poi in sentenze. Il giudice dovrebbe collocarsi sempre oltre e sopra il mondo degli assistenti sociali, dei consulenti, delle convinzioni radicate, delle interpretazioni consolidate, e dovrebbe invece sempre riuscire a guardare autenticamente dentro i nuclei familiari, anche quando costa una fatica immane, per distinguere le situazioni difficili da quelle insostenibili e scegliere per il meglio del minore e non per il meglio delle convinzioni di chi se ne occupa. So che è difficilissimo, ma l’indagine della Procura di Reggio Emilia deve fare riflettere sugli errori educativi e giudiziari generati da una fraintesa militanza sociale.