Sono passati 40 anni da quel 19.72. Era il 12 settembre del 1979 e a Città del Messico, dove l’aria è rarefatta e il respiro si spezza fin dallo scattare dai blocchi di partenza, Pietro Mennea divenne l’uomo più veloce del mondo. 19 secondi e 72 centesimi, tanto impiegò il velocista italiano per percorrere i 200 metri piani. 19 secondi e 72 centesimi, il tempo per tenere il fiato sospeso e per passare dalla storia alla leggenda. Perché Pietro, nato a Barletta, nel profondo sud, per entrare nel mito ha dovuto sudare fatica, sputare sangue, trasformare il suo corpo esile in una fascia di muscoli esplosivi. Fu lui, insieme al rivale russo Valerij Borzov, a rompere il dominio degli afro americani, così come aveva fatto in passato un altro italiano, Livio Berruti, che alle Olimpiadi di Roma del 1960 vinse la medaglia d’oro nella stessa distanza.
Pietro non era un predestinato, la leggenda se l’è costruita in ore, mesi e anni di allenamenti estenuanti, senza aver bisogno di utilizzare alcuna sostanza proibita che non fosse il senso del sacrificio e di abnegazione tipica di un uomo che aveva la fatica del sud nel sangue. Tra gli anni 70 e 80 tutti, pensando alla corsa, volevano essere Pietro Mennea. I bambini, i ragazzi, gli adulti, sportivi, e non, erano affascinati da questo minuto ragazzo di provincia venuto a prendersi il successo senza guardare in faccia nessuno, con la scontrosità tipica di chi sa che ogni gara è una questione di vita o di morte. Dopo ogni vittoria, Pietro con il dito indice indicava il cielo, quasi a disegnare le traiettorie che dovevano portare a Dio e, quindi, all’immortalità.
Più tardi, quando il suo record fu battuto da un tale Michael Johnson nei campionati nazionali statunitensi, quel 19.72 assunse un significato iconico. Per sempre e comunque, rimarrà il record del mondo più longevo della storia dell’atletica leggera. Scherzando, riferendosi ai tanti atleti afro americani che negli anni scolpirono nuovi record, Mennea ebbe a dire: “Se avessi avuto il fisico di quelli, altro che 19.72”. Soltanto un anno dopo, Mennea, già freccia del sud, vinse la medaglia d’oro nei 200 metri alle Olimpiadi. Rivedere quella gara è come rivedere la vita di questo atleta senza tempo. Indietro fin poco dopo la curva, Mennea, imboccato il rettilineo, incomincia una prodigiosa rimonta. Agli 80 metri è penultimo, ai 60 è terzultimo, ai 40 è quarto, ai 20 ancora quarto, ai dieci è primo in linea con gli altri. All’arrivo è ancora una volta leggenda. Perché Pietro, come dimostrerà anche nella sua seconda vita(quando conseguirà ben 4 lauree e si dedicherà alla professione di commercialista e di avvocato, oltre che di docente universitario) aveva soltanto una regola, quella del soffrire per sognare.
Ecco, la lezione di Mennea è una lezione universale, soprattutto per i tanti giovani di oggi abituati ad avere “tutto e subito”. Le scorciatoie, però, sono solo illusioni, un esercizio fasullo che prima o poi svela l’inganno. Niente è irraggiungibile, neanche il successo. Per acchiapparlo ci vuole forza di volontà e tenacia, sofferenza e fatica. L’unico vero limite è quello mentale. 19 secondi e 72 centesimi. Oltre quel tempo non c’è più nulla. Se non Pietro Menna, l’immortale.