Ieri l’ennesimo blitz della Guardia di Finanza all’ospedale San Martino di Oristano. Dico l’ennesimo, perché ne ricordo almeno un altro, quasi un anno fa, corredato anche da riprese televisive (ovviamente impunite). Questa volta è andata meglio: nessuna telecamera. Ovviamente oggi i giornali lanciano ipotesi e tirano in ballo il sindaco di Macomer, Antonio Succu. Come? Chiedendogli se abbia ricevuto o no un avviso di garanzia. Alla risposta negativa, pubblicano comunque il suo nome. Risultato? Nell’opinione pubblica Antonio Succu è comunque indagato, anche se non risulta indagato (se lo fosse avrebbe dei diritti, che oggi non ha).
Questa è l’Italia che profondamente disprezziamo, l’Italia del processo prima del processo, l’Italia dei linciaggi mediatici sulle illazioni.
Poi i giornali ricordano altri fatti veri.
Da più di un anno, esattamente almeno da due, i giornali annunciano ecclatanti e imminenti eventi che poi non si realizzano. Il fatto evidente è che le indagini durano da tempo e sembrano avere un oggetto trasversale: il Partito dei Sardi, i suoi componenti, le sue azioni. Abbiamo studiato e, pur avendo letto molte sentenze recenti e passate, non abbiamo trovato una sola sentenza che assumesse come ipotesi investigativa la trasformazione di un intero partito in una associazione a delinquere. Ma in Italia c’è sempre una prima volta. Oggi si cita anche la deposizione del Presidente della Giunta regionale di poco più di un anno fa. Sarei veramente curioso di leggerla, sia per curiosità personale sia per il gusto di vedere plasticamente realizzato il compiersi dei diversi punti di vista.
Il dato stabile è che un numero imprecisato di addetti della Polizia giudiziaria, sicuramente molte intercettazioni telefoniche e ambientali (e qui sarà interessante vedere come verrà rispettata la norma di recente varata che impone di utilizzare solo ciò che è pertinente al reato contestato), molti interrogati come persone informate sui fatti, molti costi, tutto questo è in campo da più di due anni e ancora non si vede uno straccio di fine indagini, uno straccio di processo, uno straccio di formalizzazione delle accuse. Zero.
Quante indagini sono state aperte direttamente o indirettamente contro il Partito dei Sardi e/o suoi esponenti? Quali sono le date di apertura e chiusura dei diversi procedimenti? Non si sa, ma prima o poi si saprà. Vi erano e vi sono riscontri tali da giustificare un impegno così forte contro un solo soggetto politico? Lo si vedrà.
Benché come è noto io non abbia alcuna fiducia nella giustizia italiana (penso che Kafka l’abbia descritta profeticamente) c’è una parte della procedura che mi piace: il processo. È l’unico momento dialettico; è l’unico momento in cui chi accusa deve giustificare le sue accuse senza essere protetto dalla forza dello Stato, è l’unico momento nel quale non vi sono carte coperte, è l’unico momento in cui se l’accusa ha una natura fondata sul pregiudizio è possibile esplicitarla.
Nel processo tutto è fermo: le prove, le denunce, le interpretazioni, i nomi, le competenze. Tutto è lì, visibile, e il potere dell’accusa è sotto gli occhi di tutti e bilanciato da quello della difesa. Solo lì potremo capire che cosa è realmente successo in questi anni.
In Sardegna si ha paura di parlare di queste cose perché tutti, ma proprio tutti, hanno paura dei magistrati e del carcere.
Ma la paura rende schiavi.
Noi non siamo né audaci, né incoscienti, e il carcere non piace neanche a noi. Ma farci prendere dalla paura ci fa schifo, proprio perché ci sentiamo onesti e liberi. Noi reagiremo a ciò che ci appare come un mastodontico abuso di giustizia nel processo e con le forme di protesta che Gandhi ci ha insegnato.