È bastato evocarlo e subito ha strappato tanti commenti. Oggi addirittura un articolo di fondo di Luca Roich sulla prima pagina della Nuova Sardegna.
Ieri Mariantonietta Mongiu, in pochissimi minuti, durante la conferenza stampa del comitato per l’insularità, ha evocato per i sardi l’esempio di Gandhi, cioè l’esempio non di una protesta civile, ma di una disobbedienza civile, di un gesto collettivo di esistenza e di resistenza.
Se il comitato per il referendum capisse di avere il biglietto vincente per guidare la marcia dei sardi verso un cambiamento strutturale di sistema, forse riscriverebbe la storia e noi con loro.
Se la Sardegna anziché votare con una legge truccata (i voti utili, cioè conteggiati, sono quelli delle liste che raggiungono il 3% su base nazionale italiana, gli altri vengono buttati da una legge ignobile), si mettesse in marcia e non votasse e unisse tutte le proteste che la attraversano anziché nell’inutile ribellismo, in un’unica marcia di rifondazione della sua coscienza, allora di questo evento parlerebbe il mondo, non solo e non tanto le cronache politiche periferiche italiane. Farebbe più la storia una grande marcia silenziosa e dolorosa mai vista prima o l’elezione della sparuta e frantumata pattuglia di deputati e senatori? Il problema della storia sarda non è mai stato eleggere propri rappresentanti, ma far esistere il popolo sardo, fare esistere il soggetto collettivo coeso che è la sardegna, piuttosto che tanti comitati elettorali. Questo è l’appuntamento mancato della storia.
Non faccciamoci rubare dal cuore il senso della grandezza che caratterizza il nostro paesaggio e la nostra storia più antica.
Invece Roich afferma che non votare in modo organizzato e civile sarebbe un gesto non Gandhiano. Ognuno si tenga la propria opinione, ma una cosa è certa: mentre è dimostrato dalla storia che votare sempre e comunque non ha modificato la Sardegna come sarebbe stato auspicabile, la sola possibilità teorica evocata che i sardi in massa disertino le urne, crea quel senso di novità, di inedita vitalità di cui proprio la Sardegna ha bisogno per non sembrare sempre uguale a se stessa.
Si teme che il Partito dei sardi si affianchi alla protesta dei pastori. Il Partito dei sardi non lo farà, perché quella protesta deve restare sociale e non partitica. Tuttavia, il Partito dei sardi fornirà tutti i dati che dimostrano che i pastori hanno ragione, perché noi quei dati li stiamo raccogliendo da anni e li stiamo divulgando da altrettanto tempo. E i dati danno ragione a chi sostiene che non è un problema di questa o quella legge, di questo o quel ministro, è un problema di sistema. Il sistema agricolo della Sardegna è minacciato da meccanismi di sistema e da assenza di cultura dello Stato. Da assenza di Stato.
Non noi devono temere i fautori dell’immobilità della Sardegna; parlino con gli insegnanti della scuola primaria e secondaria, parlino con questa ossatura intellettuale della Sardegna e verifichino che cosa gli educatori pensano della loro condizione umiliata, della trasformazione del più bel mestiere del mondo in una grigia esperienza burocratico-impiegatizia. Vadano nelle scuole dove i presidi si considerano manager di una fabbrica di uomini. Gli uomini non si fabbricano, grazie a Dio.
Vadano negli ospedali e chiedano ai medici e ai pazienti se l’efficientissima sanità sulla carta è davvero efficiente anche nella pratica.
Vadano nelle fabbriche chiuse, nei cinquantenni abbruttiti a casa, nei neolaureati senza guida abbandonati a se stessi. vadano tra il dolore della gente che non si sente minimamente rassicurata dai ‘Tavoli di crisi’, dalle parole inglesi altisonanti e ininfluenti, dagli inganni degli annunci e dalla realtà della povertà.
C’è un dolore in Sardegna che la politica non interpreta e per il quale il pannicello caldo dell’andare a votare non serve.
Ecco, si parli di dolore e lo si metta di fronte alla banalità dell’esprimere una preferenza oppure alla grandezza di un popolo che si mette tutto insieme a dire No. Cos’è più gandhiano?