di Paolo Maninchedda
È possibile una politica nazionale sarda del latte?
Noi abbiamo sempre pensato di sì. Abbiamo detto che in tutto il mondo c’è bisogno di latte e che le nostre eccedenze vanno gestite in un’ottica globale e non solo italiana o europea. Abbiamo anche detto che la cosa più urgente è un menu di iniziative pubblico-private che devono mirare a aumentare il valore del nostro prodotto. Tra le iniziative pubbliche vi sono: il fondo rotativo per il Pecorino Romano (la Regione ha fatto interamente la sua parte, le banche cincischiano perché Banca Intesa ci vuole pensare e il Banco di Sardegna è un vaso di coccio tra i vasi di ferro del sistema bancario italiano); l’Organizzazione inteprofessionale (la Regione ha fatto la sua parte, ma lo statuto dell’organizzazione è talmente assembleare e la struttura è talmente debole che ci vorranno almeno tre anni per vedere qualche effetto); l’organismo pagatore sardo e in Sardegna (nostra rivendicazione storica, la principale delibera attuativa è imminente in Giunta); lo stoccaggio delle eccedenze per la distribuzione agli indigenti (il solito bando Agea su cui Agea è come al solito clamorosamente in ritardo); il soccorso finanziario con i pecorino bond e con i fondi di garanzia; la conclusione delle istruttorie sulla vecchia legge 15.
Ben più rilevanti le attività da mettere in campo sul fronte privato. Prima di tutto occorrerebbe un grande accordo sulle quantità prodotte ogni anno, sul latte prodotto e trasformato in formaggio, sul latte ritirato dal mercato del formaggio, sul sistema dei controlli di quantità e qualità e sulla connessione tra le misure del Por e il rispetto delle regole liberamente condivise dai produttori e dai trasformatori (chi le rispetta prende gli incentivi, chi le viola li perde). Invece, proprio su questi accordi a costo zero ma fondati sulla fiducia reciproca si è lontani anni luce da vedere concretizzarsi una speranza. C’è sempre l’industriale che se ne va sicuro di sé incurante della propria ombra, che non fa accordi, che ha risorse finanziarie per reggere un magazzino magari appesantito e aspettare tempi migliori. C’è sempre il produttore che produce sempre di più pensando che sia la quantità a generare ricchezza e non il prezzo. C’è sempre il furbetto che si svende le scorte a un prezzo devastante per il mercato, pur di recuperare un pezzo delle sue passività. C’è sempre quello che non vuole fare la fatica di diversificare ma continua a fare da decenni sempre la stessa cosa e poi pretende che sia il sistema a sistemare la senescenza della sua impresa. Rispetto a questi costumi della perpetuazione della miseria c’è solo da mettere in campo una misura, non del Por, ma dell’intelligenza. Bisogna mettere in campo cultura e conoscenza, lealtà e fermezza.
Mentre in Sardegna ci dibattiamo nel solito fango, nel resto del mondo i nostri concorrenti diretti fanno scelte importanti.
Riporto ampi stralci di un articolo apparso nei giorni scorsi.
«La Nuova Zelanda vuole aumentare la produzione di latte di pecora per esportarlo nei paesi asiatici come latte intero in polvere ed ingredienti per la gelateria. Di conseguenza il governo neozelandese cofinanzierà un progetto da 31 milioni di Euro per l’apertura di una cinquantina di allevamenti di pecore da latte, in modo da portare il fatturato annuale del settore dagli attuali 5 milioni a 130 milioni di Euro nel 2020 e 460 milioni nel 2030».
Primo commento. Mentre in Sardegna, per il difetto mortale di vivere guardando prevalentemente al mercato da secoli frequentato e non ai mercati che si stanno aprendo ogni giorno, parliamo di eccedenze, i neozelandesi (che, lo ricordo, ci hanno già fregato essenze autoctone e ci hanno fregato l’egemonia potenziale nel mercato dei foraggi) investono 31 milioni di euro per fare nuovi allevamenti pubblici. Capite, pubblici, non privati. Quando io dico a questa sinistra immemore che bisogna riparlare dell’intervento pubblico in economia, mi sento rispondere con gli ideologemi dell’ala più conservatrice del pensiero economico americano.
«Il progetto, definito Primary Growth Partnership program (PGP), è finalizzato a soddisfare la crescente domanda che il latte di pecora incontra in Asia e si basa sullo sfruttamento della tecnologia e della rinomanza nella produzione di polveri di latte che caratterizzano l’export neozelandese nel mondo. Responsabile del progetto è la società Spring Sheep Milk Co, controllata al 50% dall’azienda pubblica Landcorp Farming Limited che è la più grande struttura di allevamento con 144 aziende agricole ed oltre 780 mila capi di bestiame per la produzione di latte, carne, agnelli, cacciagione, lana. Il restante 50% della società è posseduto dal gruppo SLC, azienda di punta per la commercializzazione dei prodotti di eccellenza neozelandesi a clienti selezionati nel mondo».
Secondo commento: non vi sfugga che si parla di «crescente domanda che il latte di pecora incontra in Asia». Quanti hanno chiara questa opportunità in Sardegna? Non vi sfugga che a produrre latte, carne e lana è una società pubblica, una società di Stato; io sono per le aziende di Stato ben gestite, soprattutto in una terra come la nostra che ha problemi di capitalizzazione indotti dai secoli rapaci del fisco prima sabaudo e poi italiano.
«L’impulso alla produzione del latte ovino si inquadra nella scelta di presentare prodotti premium sui mercati internazionali. Una attenzione particolare sarà portata al miglioramento della tecnica di sfruttamento dei pascoli e di uso dei suoli nel contesto della sostenibilità ambientale e del benessere animale ed all’adozione della LEAN management methodology (produzione snella) per accrescere l’efficacia produttiva. Innovazione di prodotto, nicchie di mercato, sostenibilità: un trinomio vincente».
Capite? Una politica nazionale vuol dire questo: difendere i propri interessi economici con l’intelligenza e la cultura, non con i dazi e le espulsioni come fa il ciuffetto tinto americano.
Comment on “Per una politica nazionale del latte. Attenzione ai neozelandesi”
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Ho sempre pensato, da non conoscitore del settore lattiero caseario, che un soggetto pubblico come la regione possa intervenire in aiuto al settore sostenendo la ricerca di mercati e lo studio delle tendenze dei consumatori;
magari attivando un nucleo di esperti che, in tal senso, possa fungere da riferimento per quegli operatori che vogliono piantarla con le periodiche lamentele e coi piagnistei, ogni volta che il prezzo del romano cala ed il latte non li remunera più.
il “pastore” inteso come mero produttore di latte non ha più senso di esistere, se la sua figura non si arricchisce di conoscenze, di cultura della cooperazione e di capacità di adattarsi alle richieste del mercato (chi invece fa questo lavora e vende);
così come non ha senso di esistere la pretesa che mamma regione intervenga a integrare il reddito, dacchè si produce troppo e si vende male.
ben venga l’integrazione, piuttosto, se chi lavora in campagna diventa operatore attivo nella salvaguardia del territorio, nel miglioramento dell’agro e delle strade, nella fruibilità naturalistica del paesaggio agreste (le nostre tanche spesso appaiono indecorose discariche di ferrivecchi o “muntonarzos”).
l’ assistenzialismo ammazza la cultura pastorale e produce l’ astio di quelle categorie che, anch’ esse colpite dalla crisi, la devono affrontare senza paracadute di sorta