La vasta eco (stando ai dati della Rete) che hanno avuto la polemica e il dibattito sulla dedica “pacificatoria a gratis” di quattro sale del Museo Archeologico di Cagliari a Cocco Ortu, Gramsci, Lussu e Mannironi, merita una parola riepilogativa.
Nessuna difficoltà a riconoscere come veritiera l’affermazione di Paolo Fadda che ha ricordato come il ceto mercantile cagliaritano del XIX secolo e dei primi del Novecento sia passato dai ruoli imprenditoriali a quelli politici e non viceversa come da me sostenuto. Tuttavia, ciò vale solo nel senso dell’ambiente di prima affermazione di alcune figure, emerse prima negli affari e nelle professioni e poi nelle istituzioni. Non vale come modello sociale, perché, a Cagliari come altrove, il controllo politico è stato frequentemente usato come strumento di feudalizzazione di quote di mercato o come macchina produttrice di una rendita, che resta in Sardegna, data la latitanza intermittente del diritto, l’anelito finanziario di tanti perché avvertito come unico baluardo inespugnabile di libertà.
Niente da dire sulla ricostruzione storica di Gianfranco Murtas: utile e bella per capire i contesti. Giusto anche il richiamo a collocare le figure nel loro tempo. Ma vorrei garbatamente far notare a Gianfranco il fatto che io non ho contestato la legittimità del ricordo di alcune grandi figure, ma il loro accostamento arbitrario e a mio avviso osceno.
Poi abbiamo avuto i commenti di altri, meno colti di Fadda e Murtas, molto meno colti, tutti colombacci impettoriti della Destra cagliaritana, equamente distribuiti nelle confraternite di presunta esclusività cui essi si iscrivono per avere la sensazione di essere qualcuno, chi con mantelli e grembiuli, chi con spillette, chi con attività sociale svolta negli alberghi e nei ristoranti e chi nelle sale di vecchi palazzi. I commenti di questi sono significativi del loro colore prediletto: il nero. Li potremmo chiamare gli annerati cagliaritani, ma li omageremmo di un lessema montaliano che la loro storia non merita.
Questi parlano tutti, nell’ordine:
– del mio stile che comprende le parolacce (nel testo, irritante per loro, vi sarebbe un “cazzo” di troppo, ma mi hanno spiegato che questa idiosincrasia cazzara deriverebbe da un fraintendimento. Io ho usato la parola, non l’organo, come una sorta di interiezione, quasi con un valore sinonimico esclamativo, loro l’hanno presa alla lettera e addirittura con visualizzazione anatomica del referente, con conseguenti aspetti dolorosi legati all’età e alla memoria di Dolcibene, rex istrionum, che lamentava: «Ché io ho il cazzo mio, ch’è tanto vano / che dorme sui coglioni e non si desta, / ed è cinqu’anni o più che non fu sano»);
– del fatto che non sono cagliaritano, pensa tu che onta!, e che odierei Cagliari, pensa tu la stupidaggine! (non “cazzata”, così evitiamo di ricordare il cazzo che dorme sui coglioni dei mantellati in nero). Invece a me Cagliari piace moltissimo e mi piacciono le campagne che la circondano e il mare che la lambisce, mi piacciono le persone, la lingua sapida, la storia, il clima sociale urbano e non rurale, l’apertura mediterranea, il sapore orientale che la pervade. Non mi piacciono i pidocchi arricchiti, quelli che sgomitano per essere ammessi in salotti inutili, quelli che anelano ad essere riconosciuti dai ricchi e dai potenti, quelli che cercano i ruoli dannunziani di vati. Questi mi stanno sul naso (organo neutro) e con loro do il meglio/peggio di me quanto a beffe e sberleffi.
Ma una questione resta, ben più seria delle burle retoriche. La questione è che la famiglia di Gramsci è stata massacrata e che questo non potrà mai passare sotto silenzio. E lo è stata dal sistema giolittiano di cui Cocco Ortu era il leader. Ciò impedisce di celebrare Cocco Ortu? No, ma non insieme a Gramsci. Per me questo è il punto. Si possono sanare a posteriori le ferite della storia? Non lo so, ma se lo si vuole fare, lo si deve fare rispettando la verità.
Tuttavia oggi Cagliari dimostra di essere viva e dedica un convegno alla memoria di Aldo Marongiu, l’avvocato cagliaritano massacrato dalla magistratura di allora con una carcerazione preventiva fondata sul nulla. Peccato, davvero peccato, che il convegno si svolga dentro il Palazzo di Giustizia (luogo impraticabile per gli uomini sensibili come me, perché sommamente ingiusto) e, udite udite, senza collegamento streaming. Parleranno avvocati e magistrati, come al solito, tra di loro e dentro le loro stanze. Ma noi, a quell’ora, stapperemo comunque una bottiglia buona in onore dell’avvocato Marongiu, della sua tenacia e della sua dignità. Prosit!
Caro Maninchedda, da commentatore molto meno colto di Fadda e Murtas, ma anche da giovane (si fa per dire) cagliaritano che “frequenta” e vive per ragioni lavorative/economiche la Città, io seguo fino in fondo il suo ragionamento.
Lei dice che della storia i torti e le ragioni devono restare sempre chiari alla ricostruzione formale dei fatti.
Se la cronaca, cioè la descrizione “attuale” dei fatti, non può spesso prescindere da una certa dose di “interpretazione”, la storiografia dovrebbe invece essere un setaccio più fine, al quale sottoporre i personaggi che hanno lasciato la loro impronta originale sopra il proprio periodo storico.
Poi parla di mantelli, di spilline, di grembiuli…
Sappiamo bene a cosa si vuole riferire. E dice anche, cito, “salotti inutili”.
Vede Maninchedda, al sottoscritto quasi dispiace di essere – per disciplina personale – un osservatore attento. Ed in questa osservazione totale della Cagliari che Lei descrive, e descrive denunciandone a suo avviso la cecità di fronte all’impossibilità di mettere insieme personaggi così diversi come il notabile di fine ottocento ed il giovane incarcerato nelle prigioni fasciste, gioca a mio avviso un grosso ruolo anche l’odierno convincimento che tutto sia “piatto”.
La semplificazione come canone interpretativo di ogni realtà.
Chi segue come me diverse piattaforme giornalistiche locali si è imbattuto nella recentissima polemica, aperta da un articolo di Gianfranco Murtas, che denuncia (io ci vedo un parallelo con la questione Cocco Ortu – Gramsci) la nomina, a suo dire discutibile, di un referente per la Manifestazione Monumenti Aperti 2022 da parte del Grande Oriente d’Italia (la Massoneria), reo di aver pubblicato a mezzo social alcune espressioni fortemente sconvenienti anche di una data importante per la nostra democrazia quale quella del 25 aprile.
Poi a questo articolo è seguita la richiesta da parte un gruppo di massoni dello stesso palazzo Sanjust affinché l’ente organizzatore, la Onlus Imago Mundi, escludesse il monumento dal circuito della Manifestazione, addirittura con l’invocazione d’aiuto ad una serie di intellettuali cagliaritani, tra cui Lei (ricompreso quindi tra i “casteddai” di formazione e cultura).
Cosa si può trarre da questi parallelismi? Che come sempre la strada non è una “autostrada”, ma assomiglia di più ad un tragitto impervio, e pericoloso.
La filosofia medievale conobbe la famosa disputa sugli “universali”, ripresa da Umberto Eco alla fine del suo più famoso romanzo: “stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”, verso che è la parafrasi di un brano tratto dal De contemptu mundi di Bernardo di Cluny.
Potremmo dire che, se delle cose passate, dei personaggi, delle date, del vero e del giusto che furono non restano che i “nomi”, allora la storia non può più essere vissuta come luogo di comprensione (anche) dell’oggi. Proprio perché l’oggi invece è carne viva.
Per concludere, credo che il compito di un opinione maker sia quello di restituire al presente il suo “spessore” storico. Poi si discute.
Ma la polemica da Lei aperta ci voleva.
E su palazzo Sanjust concludo: bene farebbe la Onlus Imago Mundi, a porsi i problemi che le sono stati evidenziati. Ne va della funzione pedagogica, dell’educazione – anche nelle decisioni difficili – di una cittadinanza.
Prof., lettura molto in ritardo! L’alterita’ di cui parla l’ing. Paolo Fadda è quella che nel sentire comune del capo di sopra chiamano cagliaricentrismo?
Prof. Fadda,
io, invece, mi permetto di ringraziarla per la sua “prolissità” (che ovviamente così non è), così piacevole, interessante e stimolante.
Le sono molto grato, caro Maninchedda, di aver riaperto una riflessione sul ruolo, diciamo così politico-culturale, che Cagliari, come caput insulae, avrebbe svolto, non sempre positivamente, nei confronti dell’altra Sardegna. Come lei sa, si tratta di un discorso che nasce dauni tempo lontano, se ben ricordo il giudizio del Baudi di Vesme, che addebitava alla città la colpa grave d’avere sempre goduto “del dolce senza l’amaro, succhiando il nettare dal resto dell’isola”, favorendo in più Genova, Torino e Marsiglia anziché Tiana, Bortigali o Tratalias. Addebitando questa distorsione agli interessi prevaricanti della sua borghesia bottegaia, per via “dei forti guadagni che essa trae dal commercio d’importazione degli oggetti manifatturati, tanto da voler essere e diventare il magazzino universale dell’intera Sardegna”. Aggiungendo ancora, con una punta in più d’acrimonia, che se “tziu Giuanniccu Melis intende vendere le sue mandorle, non può che rivolgersi ai negozianti cagliaritani”.
Come vede, è l’economia mercantile cagliaritana ad aver originato nel tempo quel disamore e quelle disattenzioni – in chiave politico-culturale – che hanno suscitato in lei, per via del quadrilatero malassortito Cocco Ortu-Gramsci-Lussu-Mannironi, un giustificato giudizio critico. Perché in quel regio museo archeologico, voluto e progettato da Dionigi Scano, il legame antifascista che unirebbe quei quattro personaggi poco c’azzecca. Ed è poi quella stessa notazione che Michelangelo Pira, un bittese di alta cultura sardo-europea, avrebbe rilanciato in anni più recenti, addebitando all’anima egoisticamente bottegaia della città da sempre suddita di economie d’oltremare e colposamente indisponibile a guidare ed a sostenere le attività interne.
Ecco, c’è dunque un’alterità economica di Cagliari tra le ragioni di questo disamore, e che riguarda principalmente quello che il vecchio e saggio senatore Giuseppe Musio chiamava il “seme della ricchezza”. Che nell’altra Sardegna era sempre stato esclusivamente legato, con il sudore e la fatica, alla fertilità delle zolle di terra, e che invece a Cagliari fruttificava copiosamente, senza incorrere in siccità o in alluvioni, negli scambi e nelle intermediazioni commerciali e finanziarie. Spesso anche sulle spalle, e sulle tasche, dell’intera società isolana. Così la ricchezza, o – meglio – le classifiche della ricchezza vedevano is buttegheris casteddaius sopravvanzare nettamente in patrimonio i tanti meris paesani di ettari e di greggi.
Credo che anche questa sia una chiave di lettura da meglio approfondire sul perché la Sardegna sia, nella sua gente, così disunita e divisiva. Mi scuso per la prolissità, ma il tema mi è caro, anche perché, da cagliaritano, vorrei tanto che la città divenisse e fosse riconosciuta come faro e guida dell’intera Sardegna.