Il 19 luglio 1992 vennero uccisi a Palermo, in via D’Amelio, con un’auto bomba, il giudice Borsellino e la sua scorta.
Solo nel 2007, con il pentimento di Gaspare Spatuzza, cioè 15 anni dopo i fatti, si riuscì a smascherare un posticcio depistaggio che aveva portato in carcere, con condanne pesantissime, persone assolutamente estranee ai fatti. Una grande bugia di Stato, costruita dal superpoliziotto, nonché membro dei Servizi Segreti italiani, Arnaldo La Barbera, che ‘resse’ fino alla Cassazione, cioè tre gradi di giudizio. Solo con il Borsellino quater, cioè dopo la confessione di Spatuzza, la verità cominciò ad emergere.
Sto cercando di occuparmi delle carte dei processi Borsellino. Occorre tanta pazienza. Soccorrono le ultime deposizioni dinanzi alla Commissione antimafia, in particolare quella dell’avvocato Trizzino, marito di Lucia Borsellino e legale della famiglia.
Nei giorni scorsi, per la prima volta, la Procura di Caltanissetta ha iscritto un magistrato nel registro degli indagati, con l’accusa di non aver condotto, col dovuto impegno e rigore, l’indagine sul dossier Mafia-Appalti che, a detta di molti, sarebbe all’origine dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino.
È molto difficile occuparsi del caso Borsellino, in primo luogo perché, al netto della famiglia, in troppi hanno cercato di cavalcarne l’onda emotiva, cioè di crescere socialmente, professionalmente e politicamente sul prestigio sociale generato dalla vittima. Si trovano molte pubblicazioni, tanti archivi, ma nessuna disamina che metta in fila i documenti in ordine cronologico, individui le ripetizioni e le informazioni di seconda mano, faccia l’indice dei nomi e incroci i dati e le date, renda utilizzabile e percorribile un archivio digitale della montagna di carte prodotte. Non esiste un lavoro serio sulla strage di via D’Amelio. Proveremo a farlo nei prossimi anni, ma è difficilissimo; serve la collaborazione delle istituzioni, serve una montagna di denaro (‘montagna’ per noi filologi che siamo tendenzialmente dei poveri in canna, serve qualche decina di migliaia di euro), servono magistrati disponibili, servono istituzioni che proteggano un lungo lavoro di riordino e di schedatura incrociata, servono filologi pazienti.
Tuttavia, dal poco che ho potuto raccogliere e dal molto che ho potuto leggere, emergono singolari analogie col caso Moro.
In primo luogo, l’uso di ‘fumogeni’ burocratici di Stato. Entrambe le vicende stanno sepolte sotto montagne di carte e, ogni anno, le montagne si innalzano di nuove carte. Chi conosce la storia sa che moltiplicare le narrazioni ermeneutiche è una tecnica per nascondere la verità: tante interpretazioni, nessuna verità.
Il secondo punto di contatto è la scomparsa degli originali. Come è noto, gli originali delle risposte scritte e verbali di Moro alle domande dei suoi carnefici non sono mai stati trovati. Disponiamo solo degli originali delle lettere che lo statista Dc inviò ai familiari e ai compagni di partito durante la prigionia. Così, di Borsellino sono scomparse le agende dove lui appuntava gli incontri e gli impegni, ma anche, e a parte, le intuizioni. La scomparsa delle agende è opera di appartenenti alla Polizia di Stato. La ‘volontà dell’autore’, il Graal dei filologi, in entrambi i casi è stata occultata.
Il terzo punto è il cordone sanitario e giudiziario stretto intorno alla famiglia. Strano che sia verso la famiglia Moro che verso quella Borsellino sia stato fatto un lavoro che consiste nel depoteziare qualsiasi loro affermazione e derubricarla sotto l’insegna “Il dolore fa sragionare”. Sintomatico che la vedova Borsellino, morta di leucemia, sia stata fatta passare per svanita. Strane le raccomandazioni continue a moglie e figli a tacere, a non mostrarsi in pubblico, a stare attenti (attenti a che cosa?). Le famiglie Moro e Borsellino hanno intravisto nettamente la sagoma di chi manovrava i pupi (come dicono in Sicilia), ma il potere ha svolto un’opera infame intorno a loro per depotenziarne la credibilità.
Il quarto punto in comune è l’azione di disturbo che hanno svolto quanti hanno fatto carriera sulle due stragi. È un tema scabrosissimo per la magistratura italiana, ma è ormai evidente che l’ansia da prestazione di molti giudici, preoccupati di surfare sulle onde del consenso dell’antimafia, ha ucciso la verità sotto la vanagloria di giudici egotici e incapaci. Sui magistrati del caso Moro, stendo un velo pietoso di sconcertante incapacità.
Resta un dovere cui assolvere quando si fanno questi lavori faticosissimi e rischiosissimi: bisogna saper ricostruire il movente.
Il movente dell’esecuzione di Moro è ancora ignoto (sebbene, a mio avviso, esso risieda nella altissima possibilità che Moro avesse capito chi aveva collaborato al suo rapimento e alla copertura della sua prigionia e chi avesse rapporti occulti con le BR, comprensione che riguardava inevitabilmente alti settori dello Stato).
Il movente della strage Borsellino sta in una parallela comprensione: Borsellino aveva capito e individuato il luogo del contatto tra la mafia e settori strategici dello Stato. La conferma sta nell’evidenza del movente dell’azione di La Barbera. Questi era un poliziotto dalla testa ai piedi, non avrebbe mai depistato un’indagine se non per il fatto che gli era stato ordinato; chi poteva dare un ordine del genere a un poliziotto del genere stava solo ed esclusivamente a Roma e molto in alto.
Vedremo se riusciremo ad avere tempo, salute, collaboratori e risorse per raccontare in modo ordinato tutto questo.
Le risorse sono come I sicari….basta cercarli ! Così dicevano ad Aggius.