Sono convinto che, per comprendere cosa è stato davvero l’Olocausto, bisogna conoscere delle storie che riguardano singole persone, con le loro vite devastate, e lasciarsi condurre all’inferno.
Un libro che raccomando di leggere è Io non mi chiamo Miriam, di Majgull Axelsson, pubblicato da Iperborea: racconta un episodio dell’olocausto dei Rom e dei Sinti, il Porrajmos, ancora troppo poco noto e anzi nascosto, nonostante ci sia una giornata apposita (il 2 agosto) per commemorarlo. Miriam festeggia i suoi 85 anni in Svezia, ma porta un macigno dentro di sé: da circa 70 anni ha dovuto nascondere a tutti, anche alle persone più care, il suo passato, la sua identità, la sua lingua, persino il suo vero nome, Malika. Il suo passato è quello di una ragazzina rom, rinchiusa ad Auschwitz e poi a Ravensbrück, che per sopravvivere è stata costretta ad assumere l’identità di una prigioniera ebrea morta durante un trasferimento: per assurdo, questo passaggio da una divisa con il triangolo marrone a un’altra con quello giallo sarà la sua salvezza. Infatti, sopravvissuta e liberata, approda nella “civilissima” Svezia, dove però i tattare (gli zingari) sono perseguitati e fatti oggetto di attenzioni eugenetiche: da qui il suo dover vivere nascosta (Miriam e non Malika), sospesa tra un passato doloroso, che non ha neppure il sollievo della parola, e un presente in cui si sente un’intrusa, un’abusiva. Questo libro è un pugno nello stomaco che stana i pregiudizi striscianti presenti ancora oggi nei confronti dei diversi, su cui fanno leva i moderni seminatori di odio, confermando tragicamente ciò che sosteneva Primo Levi, ossia che tutti coloro che dimenticano il proprio passato sono condannati a riviverlo.
L’altro libro che vorrei raccomandare, più nel tema della Shoah, si intitola Dallo scudetto ad Auschwitz. Storia di Arpad Weisz, allenatore ebreo, di Matteo Marani, per l’editore Diarkos. Qualche tempo fa lo lessi di getto e ne scrissi una recensione, che riprendo. Árpád Weisz è stato un geniale allenatore di calcio ebreo-ungherese che negli anni Trenta del secolo scorso vinse alcuni scudetti in Italia, un paio di fila a Bologna. A un certo momento, all’apice della carriera e della popolarità, le leggi razziali gettarono nel buio la sua esistenza, nel senso che quasi da un momento all’altro non si seppe più nulla di lui, ma anche che decretarono la fine sua e della sua famiglia (ad Auschwitz). Il libro, frutto di una ricerca difficile e appassionata, merita di essere letto per tante ragioni: per la toccante vicenda umana di Weisz e della sua famiglia, per rivivere la tragedia e la vergogna delle leggi razziali in Italia, per capire un po’ meglio quel periodo, perché è ben scritto e si legge fluidamente. Lo consiglio soprattutto a chi, per malafede o ignoranza, ripete che nello sterminio degli ebrei l’Italia e il fascismo avrebbero avuto un ruolo marginale, o che, a parte un paio di “errori”, il fascismo avrebbe fatto cose buone. Quegli “errori” non sono piovuti dal cielo: sono nati dal lievito malato di un regime criminale e dalla complicità di troppi pavidi.