La cultura è, per me, un ansiolitico, un unguento lenitivo di ciò che vede la ragione e di ciò che non può la volontà. La cultura è alimento di speranza.
Mi piace quella non agonistica, non orientata a instaurare un’egemonia o a celebrare un’eccellenza, come si dice oggi. Non ho infatti mai creduto che la qualità nasca dalla competizione, anzi penso che la competizione sia palestra di ferocia.
Oggi do due piccole notizie, coerenti con la mia personalissima impostazione.
Laura Sanna, già docente di letteratura inglese presso l’Università di Cagliari, ha pubblicato per i tipi della Facoltà Teologica della Sardegna, un volume intitolato: Un volto: Robert Southwell.
Si tratta del primo studio sistematico, con edizione dei testi e delle lettere, della vita e dell’opera di una figura particolarissima: un gesuita che, inviato nell’Inghilterra di Elisabetta I a sostenere i cattolici perseguitati, viene catturato, torturato e impiccato. Non era un politico, era un missionario, ma anche un grande poeta.
La bellezza del libro (oltre ad essere l’ultimo dei tanti prodotti ignoti di tanti sardi che si occupano del mondo e non solo dell’ossessiva e ossessivante Sardegna) sta anche nella scrittura di Laura Sanna, elegantissima, rinascimentale, delicata e profonda. Si legga l’esordio: «In tempi di sfide culturali, politiche e sociali agli ordinamenti ereditati dal passato, e uno di questi tempi è il nostro oggi, si è sempre sperimentato insieme all’irrigidimento progressivo delle posizioni contrapposte, fino alla violenza ultima della guerra, il moltiplicarsi di stereotipi negativi. L’altro viene consegnato, distorcendone le fattezze, al pubblico ludibrio, all’isolamento sociale, spesso alla persecuzione e alla morte».
Le poesie di Southwell sono tradotte e tradurre poesie significa riscriverle: «Non vi stupisca in chiare acque il fango / fragile creta fu chi ora è santo”. “Un verme indegno può guadagnare un tuo mite sguardo, / lui che striscia in basso, dove è caduto volando».
Insomma, è un libro densissimo, di storia, di metafisica e di mistica, di arte raccontata e realizzata, di limite, perché l’uomo è incapace di vedere «la somma tutta / del molto il massimo, di ogni bene il meglio».
In molti conoscono la poesia di Antoninu Mura Ena, Banditore chin trumba, uno dei capolavori del Novecento sardo, reso noto al pubblico dall’infaticabile opera di modernizzazione della letteratura in sardo portata avanti dal compianto Nicola Tanda. La riporto qui sotto per ricordarla oggi, perché ho avuto nei giorni scorsi l’onore di sentire in anteprima come l’ha musicata Piero Marras. Siamo di fronte a una canzone raffinatissima e struggente che spero abbia il successo che merita, perché le parole hanno proprio trovato la melodia e la voce che cercavano. L’album che la contiene è di imminente uscita.
Su chimbe de su mese ’e Sant’Andria
Corittu, su poeta banditore,
a sas otto ‘e manzanu,
at bocatu sa trumba armoniosa.
E at ghettatu su bandu
ch’it ‘inita sa gherra vittoriosa.
Et a cantatu in poesia goi:
-Si avertet sa populassione
chi ‘erisero est ‘inita sa gherra
in chelu, mare e terra.
E in tottue.
-Si avertet sa populassione
sas troppas nostras an picatu a Trento
e ‘nche son irbarcatas in Trieste.
S’Austriacu a fine ‘e tantu istrughere
tzedit sas armas e benit a rughere.
-Si avertet sa populassione
chi venzat tottucanta a su Tedeu.
e a sa portessione.
-Si avertet sa populassione
chi ‘eris a manzanu,
a s’essita ‘e sa missa
m’an datu notissa
chi est mortu Bustianu, su ‘izu meu.
Si avertet sa populassione
chi venzat tottucanta a su Tedeu.
Antonio Mura Ena