Da tempo conduco una riflessione su libri poco frequentati dalle élite politiche italiane, testi considerati libertari in Francia e anarchici in Italia. In realtà sono testi che educano ad avere responsabilità di se stessi, a non sprecare la vita, il tempo e gli affetti, in poche parole a capire il vero tesoro dell’esistenza, che non è il “plurale”, ma il “singolare” che liberamente si associa e si fa compagnia.
Non stupirà dunque il sospetto che da anni nutro verso le forme sofisticate di organizzazione del lavoro e dell’amministrazione: dietro queste enormi cattedrali gotiche del diritto si nasconde l’esercizio, spesso ben nascosto dietro l’apparenza della sua asetticità, di un potere quotidiano di uomini su uomini che incide notevolmente sulle libertà individuali.
Tra questi poteri sta anche quello dei direttori generali delle Asl, nonché dei loro direttori sanitari e amministrativi.
È accaduto che ieri al mio rientro da una due giorni tutta filologica, un sindacalista mi fa leggere, quasi di nascosto e al buio, intimorito e tremebondo, una lettera con cui i vertici del megamostro Brotzu-Oncologico-Microcitemico contestavano a un primario (nome cancellato, reparto cancellato, paura dilagante) alcune dichiarazioni apparse sulla stampa. Tornato a casa, non mi è stato difficile, scartabellando nelle rassegne stampa dei giorni scorsi, trovare l’articolo contestato, ma, e qui la cosa mi ha fatto veramente indignare, ho ritrovato i toni e i modi degli inquirenti fraintendenti di cui da anni mi occupo per togliermi i ricorrenti pugnali dalla schiena.
Le frasi incriminate dalla lettera di contestazione (che, si badi, io non ho perché hanno avuto paura a darmela, me l’hanno fatta leggere in aeroporto e di sfuggita, per paura) sono estrapolate dal contesto e il loro senso manipolato e addirittura invertito. Una cosa scandalosa, ma che ha un risvolto costituzionale italiano, rispetto al diritto alla libertà di espressione. Chi misura il diritto di un dipendente a dissentire politicamente dalle scelte di politica sanitaria della sua Azienda? Se il mio rettore applicasse le stesse regole del regime sanitario del megamostro cagliaritano ai miei colleghi professori che giustamente stanno da anni contestando la degenerazione bibliometrica dell’università italiana (ossia la pratica di valutare con criteri di successo bibliografico la qualità della ricerca, pratica che ha portato recentemente un articolo di fisica, giudicato eccellente, ad essere firmato da 3000 ricercatori in tutto il mondo e a diffondere quindi l’eccellenza a tremila autori di uno stesso articolo, chi voglia esercitare l’intelligenza sul bestiario universitario può leggere qui) egli dovrebbe fare loro lettere di richiamo e di richiesta di spiegazioni. Non lo fa perché sa che i colleghi hanno ragione (oggi un professore universitario lavora per almeno il 40% a compilare statistiche e a calcolare mediane, accetta la schiavitù dai dirigenti amministrativi del Ministero e a cascata del proprio Ateneo, non conduce più ricerche di lungo periodo e pubblica ogni sei mesi ogni singulto generato dal suo metabolismo culturale), perché sa che l’università vive di libertà e perché ha un acuto senso del ridicolo. Nelle Asl no, nelle Asl vige il coprifuoco (oggi il gran putiferio presente a Olbia sulla sterilizzazione transtirrenica – divise, lenzuola e quant’altro vengono sterilizzati nella penisola e vanno avanti e indietro sulle navi – trova una timidissima espressione sui giornali) che dietro la difesa, sacrosanta, del buon nome delle aziende, cela una cosa che si chiama censura politica, censura del dissenso, o se non è censura è comunque strategia di limitazione del dissenso. Che cosa pensano di fare i consiglieri regionali, veri depositari non solo della sovranità della Sardegna, ma anche della difesa dei diritti individuali dei dipendenti delle Asl, posto che la sanità sarda è regionale (ma spesso lo si dimentica)?
Un piccolo post scriptum: ero fuori durante il biduo della prostrazione. Ho sofferto a leggere, per fortuna da lontano, quante volte durante la visita di Mattarella le istituzioni sarde hanno pronunciato il verbo ‘chiedere’ in tutta la sua flessione attiva e passiva. Faccio una breve riflessione: ma se la Sardegna ha rappresentato correttamente nel tempo i propri diritti, perché di fronte al Presidente della Repubblica Italiana si è schierata sulla linea della richiesta di ‘grazie e concessioni’ e non su quella della contestazione di uno Stato sordo e ingiusto? Forse si è pensato che Mattarella non sappia e non abbia mai saputo delle basi militari, dei poligoni, degli accantonamenti, della follia maddalenina (io, Stato, sfascio in fretta con poteri straordinari, tu, regione, ricostruisci lenta con poteri ordinari), della mancata notifica all’UE dell’insularità, dello stillicidio in agricoltura dei pagamenti Agea? E dinanzi a uno Stato siffatto, sordo e immemore, era opportuna una visita accompagnata in un clima da festa regia e tour turistico tra musei e mostre? L’uomo ha conquistato la posizione verticale non solo fisicamente, ma anche moralmente. Bisogna riprendere a insegnarlo in Sardegna.
Prof.Maninchedda,
Condivido in pieno le sue osservazioni.
A questo punto,però, mi chiedo e Le chiedo cosa aspetta a prendere le distanze da un Governo Regionale incapace di rappresentare, col giusto vigore, allo Stato Italiano, le continue violazioni degli impegni solennemente assunti, più volte, a favore della Nostra Isola