di Paolo Maninchedda
Ieri ho ascoltato Renzi in televisione (con qualche fatica, ma l’ho ascoltato).
Ho capito che cosa mi sta ferendo della comunicazione anche della maggioranza che governa in Sardegna, anche della Giunta di cui faccio parte.
Mi sta ferendo la paura del senso critico, della razionalità applicata alla complessità.
Sabato mattina sono andato al mercato di San Benedetto prima di partire per Macomer.
Vado al mercato ogni settimana, se posso, certamente per comprare il pesce, ma anche per divertirmi, perché mi piace la gente, mi piacciono le facce, le trattative, il clima (lo suggerisco ai tanti della Sinistra che pensano di combattere il dilagante neofascismo iscrivendosi ai Rotary o ai Lions). Ho incontrato il mio amico Mariano Porcu, professore di statistica all’Università di Cagliari, che faceva la spesa con la moglie. Abbiamo scambiato due parole e commentato questo ottimismo d’ordinanza che mettono/mettiamo su tutti quelli che si trovano a governare.
Chi governa sembra dover dire sempre che va tutto bene, che sta stanziando un sacco di soldi e li sta spendendo tutti nel modo migliore e che chi dice che si sta male, lo dice in malafede, per puro spirito polemico. Ho detto a Mariano: «Ti ricordi ‘Stanno tutti bene’ di Giuseppe Tornatore?». Un film amarissimo nel quale un padre, per una promessa fatta sulla tomba della moglie defunta, va a trovare i figli dispersi in mille faccende lungo lo sventurato stivale italico e scopre che chi si è suicidato, chi ha detto di essere un dirigente e invece è un impiegato, chi ha millantato una grande carriera politica e invece fa il portaborse ecc. ecc. Ciò nonostante, per fronteggiare il dolore della realtà, tornato a casa, afflitto, si consola raccontando a se stesso e alla moglie una storia che non c’è, nella quale, per l’appunto, i figli ‘Stanno tutti bene‘.
Non stiamo per niente bene. Non è dura, è durissima e ogni giorno si faticano sette camicie per progredire di un millimetro, non di un metro. Tuttavia, un millimetro è meglio di zero.
Ma l’errore che non voglio fare è dire che va tutto bene. Non è vero.
Il Patto di stabilità è stato sostituito dall’equilibrio di bilancio e questo rende difficilissimo pagare contemporaneamente la spesa dell’anno in corso e gli impegni/debiti maturati negli anni precedenti. I soldi escono con troppa lentezza.
Sempre le regole dell’equilibrio di bilancio italico stanno bloccando i Comuni che faticano a bandire le gare d’appalto (e la diminuzione che si è registrata nel primo trimestre di quest’anno rispetto all’anno precedente ne è già un indizio).
Gli uffici regionali sono oberati di lavoro e schiacciati da una montagna di regole sul reclutamento che impediscono ogni accelerazione. Le mobilità non funzionano né dalle agenzie regionali né dagli enti locali, perché tutti si tengono stretto il personale in servizio. Il dissesto idrogeologico è di fatto affidato a un gruppo sparuto di eroi che reggeranno finché reggeranno, ma che si sentono esposti a fronteggiare da soli un rischio così grande. Noi avremmo bisogno di progettare molto e di appaltare in tempi rapidi e invece gli enti locali non riescono a bandire le gare di progettazione e quando si fanno le gare almeno una su tre entra quasi da subito nel cono d’ombra di società in odore di fallimento.
Sul versante del lavoro dobbiamo analizzare se e come la combinazione del jobs act e della flexsecurity abbia generato nuovo lavoro o semplicemente rimacinato le forme di reclutamento anomalo del vecchio.
Le grandi vertenze industriali della Sardegna sono tutte risolvibili solo con i poteri e gli strumenti del Governo nazionale italiano il quale attua una tecnica rinvista a oltranza, spostando l’attenzione dei media da sé sulla Regione, che però non ha poteri per indurre Eni, Terna o chi diavolo volete a fare ciò che dovrebbe fare.
Le strade provinciali della Sardegna sono al disastro e lo Stato si trattiene il bollo auto. I nostri cantieri si muovono con grande lentezza perché non abbiamo accumulato negli anni un adeguato parco progetti. Avevo avvertito che avremmo avuto bisogno di un’agenzia delel infrastrutture, non mi hanno ascoltato e adesso siamo poco competitivi con le altre regioni d’Italia.
Potrei continuare ma non serve. Ciò che voglio dire, e voglio dirlo ai nostri candidati alle amministrative, è che non dobbiamo avere paura di dire che vogliamo un cambiamento profondo della Sardegna, non il mantenimento ottimista dell’agonia.
Noi vogliamo uno Stato nuovo, perché l’attuale è intaccato alle radici.
Per produrre cambiamento occorre avere spirito critico e profonda conoscenza della realtà. Noi non siamo cicisbei del Settecento che coprono le pustole della sifilide con la cipria. Noi cerchiamo gli antibiotici per curarla. Le nostre elezioni sono animate dalla determinazione a cambiare tutto, non un pezzo, perché è l’architettura dello Stato che va profondamente cambiata.
Non va tutto bene, per niente. Ma noi siamo qui non a scegliere la strada della protesta e dell’indignazione (queste le sanno percorrere tutti); noi siamo qui per una pacifica, matura, costante, profonda rivoluzione.