Ieri, una delle maggiori esperte d’Italia di diritto matrimoniale, l’avv. Annamaria Bernardini de Pace, è stata intervistata alla radio durante la trasmissione La Zanzara. Il tono e lo stile della trasmissione non sono dati certo dall’ospite ma dai conduttori, che sono tra i più irriverenti della Repubblica, tuttavia una risposta mi ha colpito: «Molestie? Magari ingiurie – dice la Bernardini riferendosi alle frasi di Rocco Siffredi contro la giornalista – ma non molestie. L’ingiuria non è reato. Se mi dicessero: “Fatti una scorpacciata di cazzi”, mi sembrerebbe un augurio. Stare male per una frase simile mi sembra provocatorio». L’avvocato fa riferimento all’iniziativa legale di una giornalista contro il pornoattore Rocco Siffredi che un’intensa campagna di stampa sta sdoganando dal mondo del porno per portarlo al mondo del pop. A me interessa il linguaggio.
C’è una diffusa tendenza a portare il sesso dalla sfera individuale e privata a quella pubblica. È l’ultimo miglio di un processo iniziato molto tempo fa che ha separato pulsione e sentimento e reso i gesti dell’intimità prodotti esibibili e replicabili, esercizi ginnici. Quanto più il sesso è esibizione di sé, tanto meno è compimento di sé. Non a caso, le poetesse come Alda Merini e Patrizia Valduga scelgono una strada diversa dall’esibizione: loro estetizzano l’immagine mentale del sesso, cioè si immergono nel luogo vero del piacere, che è la mente, dove ogni gesto è simbolo, dove il significato non è dato dalla natura, ma dalla coscienza. Questo rende ogni incontro sessuale un incontro personale, unico, non replicabile, intenso.
Ciò che mi disturba nello sdoganamento della pornografia da bancarella è il numero grammaticale, è il plurale, è “la scorpacciata di cazzi”. Quando Tinto Brass girò Caligola, la sua orgia era una metafora della coscienza della morte, della disperazione ridente dell’uomo costretto a un surrogato di Dio, il piacere promiscuo, senza scelta, casuale; poi quell’orgia venne ristilizzata e divenne un set porno e Brass ne prese le distanze, proprio perché si passò dal privato al pubblico, da un punto di vista personale a uno spettacolo al Colosseo.
Poche cose, nel nostro tempo, sono restate personali, uniche, irripetibili. Tra queste l’amore, il sesso, la preghiera, il dolore. Augurare una scorpacciata di cazzi a una donna significa schierarsi col plurale della civiltà di massa, dove tutto va a tonnellata e niente più a grammo, niente più nell’animo, tutto nell’arena del Colosseo. Significa immaginare che tutte le donne siano organismi ormonali e non persone, che siano tutte una schizofrenica somma di ragione e pulsione, con la seconda da soddisfare al mercato e la prima da esercitare al lavoro.
Personalmente, invece, le donne che ho conosciuto, le ho trovate splendidamente composte in un equilibrio emotivo di pulsione e eleganza, di contenuto e forma, di desiderio e volontà. Nessuna di loro amava il plurale. Il nostro destino, di uomini e donne, è nel dialogo, non nell’assemblea vociante. È nel dialogo che ogni gesto ci eccita e ci completa, ci fa esprimere e non ci lascia soli. Noi tutti combattiamo col demone della solitudine, del silenzio muto e senza significato. Noi tutti cerchiamo in tutto un senso, il nostro senso. Il sesso sta dalla parte della luce, non dell’ombra, a patto di saperlo vivere e non solo praticare. Abbasso il plurale!
In un mondo dove tutto è riproducibile all’infinito, l’unica cosa che non può essere millantata è il dialogo personale. È ciò che unisce sé giovanissimi a sé anzianissimi, per la sola forza del verbo come patrimonio della razza umana, cioè la libertà di essere uniti a tutto l’altro. Nessuna procreazione, nessun atto sessuale, nessun orgasmo può rivelare ciò che siamo. Solo il dialogo ci fa capirlo e amarlo.
Bellissima riflessione. Grazie Paolo
Notevole il pezzo di oggi! Sembra quasi che non lo abbia scritto tu (!!?😂)
Un abbraccio e Buona Pasqua!