Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Sta per arrivare Natale, e come tutti gli anni il mondo della scuola sarda si appresta a compiere il rito del Dimensionamento Scolastico. Ormai abbandonato l’eufemismo lessicale che faceva pensare a una “riorganizzazione” della rete scolastica, il piano regionale sarà, come sempre, un’operazione di ri- dimensionamento, ovvero di una ulteriore riduzione delle autonomie scolastiche.
In altre sedi si potrebbero analizzare i motivi del come si sia arrivati a dover celebrare annualmente questa ricorrenza, inquadrandoli da diversi punti di osservazione con sguardi ora orientati da scelte sociali, ora guidati dall’esigenza di utilizzare efficienti leve organizzative, fino a quelli di tipo meramente amministrativo e politico, per cercare di comprendere quale sistema scolastico si voglia realizzare e con quali obiettivi.
Ma sarebbe lungo e fuorviante.
Preso atto dell’incapacità di programmare una rete scolastica in modo pluriennale (basterebbe contare i bambini nati in un anno per stimare quante classi di scuola primaria si potrebbero formare di lì a cinque anni, e prevedere dei piani di tipo triennale o quinquennale) al momento ci si chiede chi perderà la “titolarità”, ovvero quale scuola verrà soppressa e/o accorpata, e per quali ragioni sarà questa o quella.
Si badi bene che nessuno verrà licenziato, nessun paese perderà la scuola (il cosiddetto PES – Punto di Erogazione del Servizio) se non lo vorrà, e che nessun alunno sarà costretto a fare sacrifici di pendolarismo non attualmente previsti. Si tratta solo di “asciugare” il numero degli uffici amministrativi e delle Dirigenze, per realizzare gli obiettivi previsti nella legge nazionale di bilancio per l’anno 2023 (Legge 29 dicembre 2022, n. 197).
La norma, in nome di un presunto risparmio di spesa (presunto, dato che le ultime scelte politiche sembrano andare nella direzione di ben altri investimenti, come si evince da queste notizie https://bit.ly/3AZO4tF, https://bit.ly/3CTjdiT e https://bit.ly/4fZjOOq) regola l’organico dei Dirigenti Scolastici (e dei DSGA) indicandoli in numero pari a 1 ogni 900 alunni, da destinarsi secondo i piani scolastici regionali laddove maggiormente necessari. In questo modo va oltre i criteri della “dimensione” rappresentata dal numero di alunni (nessuna scuola è sotto/ normo/ o sovradimensionata) e necessariamente spinge a rideterminare la rete dell’offerta formativa in modo più razionale e funzionale. La strada sarebbe quella di realizzare un processo di analisi e successive scelte strategiche, ovvero politiche, che vadano a definire criteri rispettosi proprio dei bisogni territoriali e individuino le autonomie scolastiche più idonee a presidiarli.
In mancanza di questo genere di percorso si va a rattoppare il sistema, operando secondo vecchie logiche basate su criteri pitagorici, sopprimendo le autonomie più piccole e più fragili e accorpandole ad altri istituti che, tra alunni e personale scolastico, si ritroveranno ad avere una “popolazione” superiore a quella del 40% dei comuni della Sardegna (che non superano i 1000 abitanti). La cosiddetta “toppa” peggiore del buco.
La conseguenza pertanto sarà solo una ricaduta sul piano organizzativo (e giuridico – amministrativo), da un lato per gli Istituti che si troveranno a dover operare in una “dimensione” allargata (per esempio ben oltre i 1000 alunni) e dall’altro per istituti – e le comunità periferiche – che verranno privati della dirigenza e degli uffici amministrativi, cioè della possibilità di governarsi autonomamente. Ovviamente cambieranno gli organici dei docenti (con probabili cambi di istituto a discapito della continuità didattica), dei collaboratori scolastici, i documenti della programmazione didattica (il Piano dell’Offerta Formativa) e del governo amministrativo, con un nuovo bilancio, nuovi organi collegiali e rappresentanze sindacali. Cambieranno le dinamiche sociali e relazionali, potrebbero cambiare le amministrazioni locali di riferimento, ma soprattutto cambierà – e sarà molto più confusa, inefficiente e, probabilmente, inefficace – la gestione dei progetti PNRR, ora affidati a un istituto e poi “confluenti” in altri (che già non riuscivano a gestire i propri!!!). Spesso il cambiamento è un’opportunità di crescita, ma se crescono solo i problemi collegati, non sembra un buon investimento, soprattutto se poi ci si continuerà a lamentare dei tassi di dispersione scolastica e dell’abbandono che non scenderanno. Anzi, potranno solo peggiorare a fronte dell’aumentare delle difficoltà.
Ma la legge è legge, e siccome non si può tornare indietro nel tempo per cambiarla o bocciarla, né ignorarla, è doveroso darle seguito, in attesa che altri provvedimenti possano invertire la rotta con coraggio e lungimiranza.
Perciò, fatte salve le critiche a una legge ingiusta e iniqua, come fare a individuare “le scuole che non ci servono”?
Lo so, è bruttissimo da sentire, ma l’idea di “sopprimere” ha certamente più forza, anche mediatica, della contrapposta visione del potenziamento. Le scelte operate finora hanno cercato di non penalizzare troppo nessun territorio in particolare, tanto che nella passata edizione sono stati coinvolti in larga parte i grandi centri urbani, ma la coperta è talmente corta che occorrerà ancora più saggezza nel portare avanti l’obiettivo.
La bozza delle linee guida regionali attualmente in discussione, al netto delle premesse e delle analisi teoriche, ipotizza uno scenario tale per cui nel prossimo anno scolastico il numero delle autonomie scolastiche dovrà registrare nove unità in meno.
Lo sforzo che bisognerà fare è quello di individuarle proprio tra quelle che, unendosi, andranno a potenziarsi, piuttosto che pensare a sopprimere e accorpare “a prescindere”. Il criterio non dovrebbe quindi essere puramente aritmetico, dato che la stessa legge non prevede più il concetto di “scuola sottodimensionata”, semmai dovrebbe essere guidato da un visione di equità e di giustizia sociale. Occorrerebbe evitare l’immagine della nostra isola simile a una ciambella, dove le opportunità sociali si spostano concentricamente dall’interno verso l’esterno, considerando invece la scuola e il sistema istruzione come elemento capace di invertire questa tendenza.
La ciambella non solo è sempre più sottile, ma si è talmente assottigliata in certi punti da rompersi e far somigliare sempre di più la nostra isola a una fragile struttura sorretta da pochi pilastri, i grandi centri urbani, dove si addensa la popolazione, e di conseguenza i servizi funzionali ad essa, lasciando moltissime aree geografiche prive dei fondamentali motori di crescita sociale e culturale. In pratica si va a impoverire le aree laddove invece occorrerebbe investire, proprio per combattere la povertà educativa, in attività dove la scuola è al centro della comunità educante.
Il pericolo da scongiurare è pertanto quello di ragionare “come sempre”, “come al solito”, secondo luoghi comuni, puramente in termini aritmetici, dove chi ha meno, invece che avere di più, viene penalizzato e si ritrova ancora più povero. Il principio di equità (che già in sede legislativa non è stato considerato pensando alla una media 1/900 uguale per tutto il territorio nazionale, con minimi aggiustamenti locali) vorrebbe invece che le opportunità venissero distribuite secondo i bisogni, le risorse a chi ne è privo, i vantaggi a chi è svantaggiato. Considerare la Sardegna uguale in tutte le sue parti (province / aree geografiche) non risponde a questo principio, per cui il meccanismo di “suddividere” le difficoltà (i tagli delle scuole, in questo caso) andando a sopprimere nove istituti in nove diverse aree geografiche provinciali ( le otto province più l’area metropolitana di Cagliari) non è affatto equo, poiché le diverse aree non sono uguali tra loro, per densità di popolazione e bisogni socio educativi. Il rischio è che certe situazioni, non venendo interessate dai provvedimenti, possano poi assomigliare a dei privilegi che potenziano chi è già ricco, andando a impoverire le zone già di per se stesse in grave difficoltà sociale ed educativa.
Ecco perché le linee guida di un piano regionale improntato all’equità, alla lotta verso la dispersione scolastica, che voglia portare un contributo al miglioramento delle condizioni sociali caratterizzate da povertà educativa, non dovrebbero riportare tabelle con indicate le zone in cui “tagliare” le scuole ma, semmai, essere improntate ai criteri da rispettare, suggerendo azioni di progettazione di sviluppo, sia per chi si trova in condizioni di svantaggio, sia per chi può invece progettare il miglior utilizzo delle risorse di cui già dispone. La valutazione di opportunità va fatta SU TUTTE LE SCUOLE DELLA SARDEGNA, senza chiedere preventivamente alle province di individuare comunque nel loro territorio almeno una scuola da sopprimere, perché per assurdo, potrebbero perfino essere tutte nella stessa provincia o area.
Le direzioni didattiche e le scuole secondarie di primo grado, per esempio, non sono distribuite nelle otto aree geografiche in modo uniforme, ma sono situate, appunto, nelle aree a maggiore densità abitativa, e pertanto rischierebbero di rimanere ancora operative. Non sarebbe meglio che le linee guida si ponessero come obiettivo quello di assumere l’opzione dell’istituto comprensivo come forma di sviluppo delle comunità locali, come elemento pedagogico essenziale per spingere l’orientamento formativo, investendo su di esso? Non sarebbe più opportuno che si riorganizzassero, nei grandi centri urbani, gli indirizzi di studio delle scuole secondarie così da formare dei veri “poli” con indirizzi coerenti tra loro, e investire su di essi piuttosto che su istituti dove la varietà degli indirizzi spersonalizza l’offerta formativa? Tecnicamente, anche per i non addetti ai lavori, è intuitivo comprendere come si valorizzerebbe la mission dell’istituto e migliorerebbero le condizioni di lavoro dei docenti proprio all’interno di uno stesso istituto.
Questa sarebbe davvero la proposta innovativa.
La proposta che farebbe delle linee guida non uno strumento di privilegio per qualcuno, e neppure una calcolatrice per dividere esattamente il problema in parti eguali, mettendosi il prosciutto sugli occhi per non vedere dove stanno davvero i bisogni.
Ne farebbe una risorsa per iniziare a parlare di sviluppo nelle zone della Sardegna maggiormente problematiche, quelle dimenticate, quelle dove i dati negativi, tanto cari ai sociologi, registrano un impennata.
Ne farebbe la prima vera azione politica per garantire che non si facciano mai parti uguali tra diseguali.
Filippo Mameli
Signor Mameli è da molto tempo che le scuole chiudono nei piccoli paesi purtroppo crediamo alle promesse elettorali mentre lo scopo è fare come lei scrive l’effetto ciambella tutti lungo le coste credo che lo facciano in nome dell’ ambiente
La scuola continua a rimanere argomento da campagna elettorale. Le parole spese da tutti i candidati ci avevano fatto pensare che davvero fossero maturi i tempi per iniziare un processo di rinascita della scuola, intesa come settore nevralgico, motore di sviluppo non solo culturale ma soprattutto sociale economico e civile.
In realtà nessuno se n’è mai occupato!
Certo, l’eolico l’ha fatta da padrone, e la questione scuola è comparsa solo marginalmente nelle cronache in occasione della bocciatura della “leggina” della fine legislatura scorsa, provvedimento senza senso perché contrario alle norme della pubblica amministrazione. La scuola è dimenticata! Il piano di dimensionamento scolastico, frutto di una legge scellerata, ignorata dai nostri parlamentari sardi, non è al momento uno strumento che può realizzare gli obiettivi di una scuola sarda al centro dello sviluppo sociale, cosa che invece andrebbe affrontata con sapienza e determinazione in un processo capace di promuovere un disegno di legge trasversale agli schieramenti e agli assessorati. Una legge per e della Scuola Sarda, capace di dare risposte ai bisogni di tutti i territori e di formare le nuove generazioni secondo questi bisogni.
Filippo Mameli tenet milli bortas resone!
S’àteru est a bochire male e peus sas bidhas morindhe e a sighire a fàghere su desertu de zente e ponnère prus dificurtades a chie e inue inue ndhe tenent medas de prus.
Lavoro come insegnante in provincia ed è del tutto evidente il risultato delle necessità ragionieristiche che portano a questi accorpamenti: scadimento della qualità generale, salti mortali per insegnanti, tecnici e amministrativi, negativa percezione sempre più lampante di studenti e (ancora peggio) famiglie sulla funzione della scuola e della conoscenza. Situazione avvilente, cui si fa finta di nulla, tanto i danni arrivano dilatati nel tempo.