di Paolo Maninchedda
Ciò che sta accadendo dentro il Partito Democratico italiano è un fatto, forse largamente annunciato, ma comunque significativo. È uno scontro tutto politicista (il politicismo sta ai partiti come il clericalismo sta alla chiesa) non facilmente comprensibile dalla e nella società. Intendo dire che è uno scontro tra classi dirigenti che hanno presupposti ideologici differenti, ma che non si stanno scontrando sulle idee, piuttosto lo fanno sul loro reciproco ruolo di maggioranza e minoranza. Mi spiego meglio.
La democrazia può essere regolata o dal modello ‘chi vince prende tutto’ o dal modello ‘chi perde prende comunque qualcosa’.
Il secondo modello garantisce le minoranze, il primo no.
Ai tempi della Guerra fredda e della democrazia bloccata (cioè senza alternanza), i partiti non potevano non garantire le minoranze interne, se non al prezzo di rischiare di perdere le elezioni e determinare un grave sconquasso nello Stato e nelle relazioni internazionali.
Quando anche in Italia, più o meno dal 1994, si è instaurata l’alternanza, il dogmatismo italico, l’abitudine a trasformare sempre la dialettica in uno scontro ultimo e ultimativo, il latente fascismo delle classi medie, l’educazione alla subordinazione opportunistica, e tanti altri fattori hanno portato tutti i partiti ad essere incapaci di essere plurali, per cui tutti hanno attraversato momenti difficili, coincidenti con l’esplodere al loro interno di competizioni o politico-culturali o di ruolo.
Il problema di fondo non sono i partiti, ma il loro presupposto culturale che è l’Italia. L’Italia unitaria, l’Italia dogmatica della Costituzione, l’Italia ormai chiaramente spaccata in due ma spacciata come unica, l’Italia disordinata dove tutto è bloccato dalla diffidenza e dal sospetto, l’Italia incattivita dal fraintendimento della trasparenza con lo sputtanamento, l’Italia degli amici degli amici, l’Italia affidata ai grandi papaveri dei ministeri che decidono più di un ministro rimanendo anonimi, l’Italia dell’overbooking finanziario tra soldi stanziati e soldi dsponibili che è la grande bolla propagandistica di tutti i governi.
Dinanzi a questa Italia fracida, non i sardi, ma i politici sardi, dovrebbero avere coraggio, dovrebbero osare la costruzione di scenari innovativi, dovrebbero guidare i partiti e la società sarda verso livelli di libertà, di sovranità, di sviluppo e di felicità maggiori degli attuali. Invece, come hanno sempre fatto molti dei loro predecessori, aspettano come bambini di vedere che cosa succede a Roma, in particolare aspettano di vedere chi vince, per poi percorrere in lungo e in largo l’Isola per reclutare truppe per il novello vincitore. Una pena!
Quando Lussu tornò dalla Guerra aveva la Sardegna ai suoi piedi. Non suonò la tromba della responsabilità, della modernità, della libertà.
Quando i Segni, i Cossiga, i Berlinguer, giunsero ai vertici della Repubblica italiana, si sedettero spalle alla Sardegna.
Quando recentemente ci furono elezioni regionali con un forte mandato innovativo, chi lo ricevette buttò alle ortiche l’entusiasmo sull’altare delle buone relazioni con Roma.
Oggi che il dibattito del Pd e la crisi di identità del Centrodestra sta rendendo debole la Repubblica italiana e si vedono all’orizzonte grandi possibilità di cambiamento, utilissime per la Sardegna e per la sua legittima ambizione di essere uno stato moderno, europeo, pacifico, internazionalizzato, colto, produttivo e tollerante, nella sinistra sarda tutti tacciono, aspettando il vincitore. Tonino Dessì ha recentemente scritto che o nasce oggi un credibile Partito progressista della nazione sarda, o domani i cartelli elettorali non avranno senso. Per farlo ci vuole coraggio, ci vuole pazienza, ci vuole una immensa capacità di perdonarsi (io non sto reagendo alle provocazioni che ricevo tutti i giorni proprio perché voglio andare alle elezioni regionali con la coalizione più ampia possibile, dove ci possa stare chi condivide un grande orizzonte, non solo chi si sente reciprocamente simpatico. Bisogna dimenticare le scaramucce; c’è un futuro importante in gioco).
Le radici del coraggio non sono nella volontà, ma nell’amore, cioè nel trasporto naturale, impulsivo, generoso verso chi si ama.
La Sardegna è amata dai sardi?
Comment on “Nessuno regala coraggio”
Comments are closed.
…mi pare la dotta riflessione di un commento che feci qualche giorno fa. Ecco, mi ritrovo in questa frase: “(…) voglio andare alle elezioni regionali con la coalizione più ampia possibile, dove ci possa stare chi condivide un grande orizzonte”. L’orizzonte sia la piena indipendenza economico-culturale e politica per uno Stato sardo da costruire sulle pietre miliari dell’Agenzia sarda delle entrate e delle entrate proprie, finalmente riconosciute anche dal Governo nazionale, con piena identificazione nei diritti fondamentali dell’uomo sanciti nella CEDU, uno Stato sardo europeista e progressista. Occorre dismettere definitivamente il vassallaggio, o meglio, la pessima abitudine ad accogliere i Signori con il cappello in mano all’aeroporto ( vedasi ultimo in ordine cronologico Ministro De Vincenti, si proprio lui che qualche giorno fa si espresse – manco a dirlo – sulla vicenda delle bonifiche di Ottana ). Occorre quindi coltivare il sogno di uno Stato sardo paritario,identitario di valori storico-culturali ed artistici pari a chiunque altro. Il progetto richiede guardare oltre l’orizzonte, scrutare ciò che non è tangibile che, come nei sogni, è quasi sempre in grado di emozionare.