Il dato più importante è il seguente: nel finto Stato ordinato che è l’Italia, tenuto insieme al Sud dalle forze dell’ordine e dalla magistratura (nessuna delle quali fa all’università esami di logica né di filologia e si vede da come trattano le prove d’indagine), al Nord dalla convenienza e dalla ricchezza privilegiata garantita dallo Stato, in Sardegna dal conformismo e dalla rassegnazione, si laureano ogni anno circa 10.000 medici, ma sono disponibili solo 6200 posti nelle scuole di specializzazione. Quindi, circa 4000 medici sono destinati ogni anno a non specializzarsi. Questo è un fulgido esempio di programmazione all’italiana. Un tale imbuto formativo ha determinato una vera emigrazione di massa di nuovi medici verso l’estero: secondo i dati Istat, nel solo quinquennio 2009-2014 si è registrato un incremento dei medici che che hanno chiesto al Ministero della Salute la documentazione utile per esercitare all’esterodel 596% (in numeri assoluti, da 396 nel 2009 a 2363 nel 2014).
L’Italia però non rinuncia al numero chiuso in Medicina (che chiama ‘numero programmato’ non ‘chiuso’) e non rinuncia al perversissimo meccanismo del concorso nazionale per la specializzazione, ennesimo esempio dell’etica e dell’estetica delle grandi dimensioni volte a giustificare solo grandi centralizzazioni, cioè, in ultima analisi, grandi burocrazie e somme inefficienze.
Tutto questo ha un che di paradossale se si considera che nel decennio 2017-2026 andranno in pensione 50000 medici. Ma la risposta quale è? Un aumento graduale dei posti. Insomma, non si mette in discussione la devastazione che sta colpendo l’Università italiana, ma con metafore facili facili (“non si può apparecchiare per venti in un ristorante che ha solo cinque coperti”), si cerca di aggiustare il tiro nei decenni consumando, nel frattempo, il futuro di intere generazioni.
Faccio degli esempi: l’Università è stata uno dei luoghi da cui lo Stato si è più ritirato in questi anni e dove ha più barato con criteri di valutazione di apparente efficienza ma di sostanziale privilegio per alcuni atenei rispetto ad altri. Oggi la frazione che determina l’assegnazione delle quote dello stanziamento per la premialità favorisce chi già è ricco e forte e sta costruendo un sistema per il quale nel Sud rimarrranno le teaching universities al Nord le research universities. Tutto in nome dei costi standard e degli equilibri di bilancio. Come può essere credibile la buona intenzione di questa politica del risparmio e dell’efficienza (che è la stessa che ha prodotto l’indegno commercio bibliografico delle riviste di classe A, B, C, con ricerche con venti firme, tutte realizzate da tanti geniacci e da nessun colpevole; gli indegni e oligopolistici fattori di impatto con malati accademici di reciproche citazioni e revisori che costruiscono con i punteggi di eccellenza la carriera dei propri sodali) quando, per esempio ed è veramnete solo uno dei tanti esempi possibili, si prevede che il solo Consiglio direttivo dell’Anvur (l’Agenzia Nazionale della Valutazione della Ricerca Universitaria) costi la bellezza di 1.026.000 euro per soli sei componenti? Quante ore-uomo di lavoro giustificano questi compensi?
Questa è l’Italia: cipria modernista per coprire peste bubbonica antica. E intanto noi Sardi mandiamo i nostri ragazzi a frequentare le facoltà di medicina in Romania, poi spendiamo all’estero per farli specializzare e accettiamo, con dolore, che rimangano lì, dove si sposano e fanno figli, mentre noi muoriamo di spopolamento, nostalgia e vecchiaia perché l’ipocrisia italiana così ci condanna a morire.