A seguire con attenzione e pazienza i lavori del convegno promosso nei locali dell’Unione Sarda (e con L’Unione Sarda mobilitata fin nei titoli di prima pagina) su insularità e giustizia, si capiscono non poche cose, alcune sostanziali, altre formali (che poi è la stessa cosa, perché tutto è segno nella nostra vita, cosa che fece impazzire Nietzsche più della stessa sifilide).
Il primo dato certo è che l’insularità non c’entra assolutamente nulla con ciò che una precisa componente della magistratura sarda ha voluto significare con la sua partecipazione massiccia e esclusiva al convegno. I temi sollevati sono quelli ricorrenti in molti convegni di Magistratura democratica e di Area, e cioè: l’inadeguatezza dei mezzi, del personale e talvolta degli stessi istituti giuridici rispetto alle sfide vecchie e nuove della Giustizia; la necessità di misure alternative al carcere per un numero consistente di reati; la condizione inumana delle carceri ecc.
Questi temi sono tutti ben fondati, ma il loro uso da decenni è orientato a coprire il tema centrale della giustizia italiana: il privilegio dei magistrati di fronte alla legge (loro non sono uguali a noi di fronte alla legge, loro si sentono la legge), il processo ingiusto (sbilanciato e irresponsabile), l’ampia possibilità di arbitrio dei giudici (dei cui esiti molti sardi portano sulla schiena le cicatrici).
Questo è un primo punto.
E dunque occorre chiedersi: perché la magistratura si è voluta esibire in questa ripetizione di temi noti, all’interno della cornice vacua dell’insularità e della cornice vera del potere mediatico dell’Unione Sarda? L’unica risposta che sono stato in grado di darmi è la seguente: per un rito di riconoscimento.
I potenti hanno sempre cercato luoghi di legittimazione reciproca, riti di riconoscimento. Quello di ieri e avantieri lo è stato, con una liturgia di tutto rispetto e con il quotidiano utilizzato a suggellare l’importanza (??) dell’evento. Nella Cagliari barocca, queste cose erano affidate, per esempio, all’ordine con cui i cavalli uscivano da Castello in occasione della festa di sant’Efisio, o ai posti in cattedrale, per non parlare del valore enorme che significava essere prime voci negli Stamenti. In questi due giorni abbiamo visto un grosso gruppo editoriale affermare come Gneo Domizio: “Cur te habeam ut principem cum tu me non habeas ut senatorem?”. Alla domanda, la magistratura ha risposto di sì, ha riconosciuto il suo anfitrione. Perché? Per un bisogno di riconoscimento pubblico, per banale consenso, cioè per quell’inebriante e terribile, per un magistrato, effetto del successo pubblico. Ma se i magistrati cercano il pubblico e le sue logiche, è certo che i cittadini di fronte a loro stanno peggio di prima. Se il verme del ‘piacere alla gente’ è entrato nel corpo della magistratura, deve essere chiaro che varcando la soglia del Palazzo di Giustizia si entra a Sanremo.
Il secondo dato certo è sostanziale e riguarda la scoperta, da parte loro, dell’esistenza in Sardegna di istituti giuridici specifici – hanno citato gli usi civici, ma anche il disordine che affligge complessivamente l’assetto fondiario dell’Isola – che sono il retaggio, però, non dell’insularità, ma della civiltà dei Sardi.
La differenza tra un fatto geografico e un fatto politico e culturale sta tutto nella manifestazione della volontà.
Le montagne, i fiumi, il mare sono dati acquisiti per tutti noi, dei quali però non abbiamo alcun merito.
Gli istituti giuridici, invece, sono nostri, li abbiamo voluti, riflettono una storia, uno scontro di volontà, una soluzione. Il fatto che siano irriducibili all’ordinamento italiano, che su di essi si incaglia, significa che in Sardegna sono sperimentabili i resti di una organizzazione istituzionale e di una cultura che è diversa da quella italiana e che è stata avvilita privandola del potere.
Si entra così nel cuore della questione sarda, che è una questione non geografica (mai stati isolati da nulla se non tra di noi, tra interno e coste) ma politica, di poteri e di libertà, ed è una questione storica perché la Repubblica italiana ha, dalla sua nascita, negato la nazione sarda, ma accolto la Regione Sardegna. Questo sì che ha negato l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, perché gli istituti giuridici si sono sovrapposti a una antropologia e a un modo di vedere il mondo che è diverso da quello della tradizione italiana, per cui chi ne è espressione, sta di fronte alla giustizia come chi ha bisogno di un interprete per farsi capire. Quando Antonio Pigliaru scrisse il saggio sulla vendetta barbaricina come istituto giuridico, non scrisse né un libro di storia, né un libro di diritto, né un’indagine sociologica, scrisse il primo libro di filosofia applicata sul campo, fece un esercizio di traduzione.
Non si dovrebbe parlare di temi così profondi senza tener conto di un ormai secolare dibattito politico, storico e culturale, tuttavia si può essere soddisfatti del fatto che non appena un magistrato ha provato a darsi conto di alcune aporie degli istituti giuridici sardi, ha scoperto non l’insularità, ma la Nazione sarda.
Chissà che da ora in poi le toghe la finiscano di aprire fascicoli giudiziari inutili a carico di chiunque parli di Nazione sarda. Tutti coloro che si fanno domande in Sardegna e cercano risposte sanno che la Nazione sarda esiste, come fatto sociale e come problema politico, ma sanno anche che di certo non è un argomento da salotto o da riti di riconoscimento.
… Sa giustítzia at curtu e curret a noso comente nosi at iscagiau e sighit a iscagiare ca no solu istoricamente benit de su domíniu de fora ma, e che is políticos totu (fortzis si ndhe sarbat calecunu betau a galera po dhi acapiare su crebedhu de no pentzare, e calecun’àteru betau a galera etotu), po cantu e calesiògiat cunsideru potzaus fàere fintzes in sensu bonu, magistraos e políticos ant interpretau e intèrpretant sa dipendhéntzia de sa Natzione Sarda, dichiarada fintzes «fallita» chentza mancu lontamente pentzare chi is fallios furint e funt personalmente issos, no sa colletividade-Natzione de is Sardos mancu ca portat a liege su piessignu de s’avilimentu e depressione, disànimu e disunione seculare aifatu de is partidos de sa dipendhéntzia.
E, mancari personalmente magistraos e políticos (e àteros cun àteru ruolu) apant fatu fintzes carriera (e no pagos ‘campiones’ puru), ant fatu bene is inghiriagrastos pistadores de abba e iscallatóriu po sa colletividade, ca sa chistione de is Sardos no est una papagallónica chistione ne meridionale (de s’Itàlia!) e ne de «solidarietà nazionale» de s’Itàlia (pagu bene suo!) chi depeus ibertare is Sardos, in eternu, a illusione e fata a istitutzione e ideale de ingannu.
Est sèmpere tempus de libbertade e de responsabbilidade personale e colletiva de gente chi, no in sa dipendhéntzia/domíniu, ma in sa demogratzia tenet totu sa matessi dignidade e bisóngiu fintzes in custu mundhu fatu a bidha e sèmpere de prus disastrau cun d-una civiltade assurda, disumana, de domìniu, de gherra, criminale e criminògena.
E fintzes magistraos e políticos, chentza cambiare ruolu (e che àteros cun àteru ruolu), podent fàere sa faina de sa Natzione Sarda ca fintzes intro de galera si podet èssere personas líbberas cun dignidade de gente, e provaus a pentzare, tandho, si no dhu podeus fàere fora “a piede libero”!
Iaus a dèpere portare in su coro e in sa mente no un’ideale de “dimónios” a balentia e ne de imbenugaos pregandho e pedindho ancora a is barones de “moderare sa tirannia”, ma aprofitare de sa libbertade e responsabbilidade chi teneus totus e donniunu. Si seus gente.
Is Sardos, si ischeus e cumprendheus is fatos de s’istória no solu nosta e, si boleus, fuliandhoche a su muntonàrgiu de s’àliga su disisperu, dinànimu, disunione e illusione, si seus gente, podeus fàere s’indipendhéntzia de sa Natzione Sarda chentza fàere is «guerre d’indipendenza» chi nos’at cravau in conca sa cultura patriotarda tricolore.
“INSULARITÀ E STORIA”
Prendo spunto da questo tuo articolo per rimarcare un concetto che ho sempre avuto presente.
Quando l’amico Roberto Frongia mi inserì nel cosiddetto Comitato Scientifico del Movimento per l’Insularità in Costituzione sollevai, a lui e al patriarca dei Riformatori Sardi, Fantola, lo stesso problema.
Poi, non ascoltato, ne uscii.
Al solito.
La Questione Sarda, su cui esiste ampia letteratura scientifica (per tutti Mattone, Ortu e Ruju), non è una questione fisica o economica, ma storica, antropologica e politica.
La Nazione Sarda ha connotazioni diverse dalla Nazione Italiana, ammesso che questa possa definirsi tale.
È corretto operare con tecniche di propaganda e ricerca del consenso politico attorno al tema dell’Insularità. Non è corretto scinderla dal problema della Nazione Sarda, abortita e oppressa.
Questo accade perchè, chi porta avanti la campagna, gli ideatori politici, a cui voglio bene non per i meriti politici ma per simpatia amichevole, per loro cultura e tradizione, non hanno una coscienza nazionale sarda, tendono a una italianità, senza se e senza ma.
Questo non va a vantaggio delle sorti della Sardegna, dei Sardi, del riconoscimento della loro storia, lingua e tradizioni.
Ciò che meraviglia è che, a questo Movimento, si accomunino persone di cultura sardista. Il potere e il prestigio hanno bisogno di reciproco ricoscimento per stare in piedi.
Il disconoscimento dello status quo, la contestazione delle istituzioni non può andare oltre il limite che queste stesse definiscono.
Ho vissuto più volte questa esperienza e continuo ad averne quotidiana tangibilità nel contrasto istituzionale all’operato di Nurnet APS.
Sa zustissia ddus OMISSIS a totus…