di Paolo Maninchedda
I rilevamenti di maggio 2016 delle copie vendute dai due giornali sardi (scaricate la tabella cliccando sulla frase preccedente) dicono che entrambi sono sotto le 40.000 copie cartacee (tutti i dati in questo sito). L’Unione sta sotto l’asticella per un soffio, La Nuova in modo ben più strutturale, perché si attesta intorno alle 35.000.
Questi numeri pongono domande a diversi livelli, alcuni dei quali riguardano le proprietà, altri il pubblico, altri ancora il mondo della cultura e della politica.
Le proprietà si trovano di fronte al problema del valore delle società che si occupano di informazione.
Non è un problema solo sardo.
In questi giorni stiamo assistendo alla guerra tra Cairo e Bonomi per il controllo del Corriere, guerra vinta ormai da Cairo. Ciò che importa è che ormai sia il Corriere che Repubblica sono giornali da 200.000 copie. Ciò nonostante, la competizione per il controllo del Corriere ha mobilitato centinaia di milioni di euro e contrapposto Mediobanca (Bonomi) a Intesa (Cairo).
Come mai un valore di copie vendute così basso muove valori alti?
La risposta sta nell’incidenza dell’autorevolezza della testata sull’opinione pubblica. Ancora oggi Il Corriere e La Repubblica sono le testate nazionali italiane ritenute più autorevoli. Oggi l’autorevolezza è tutto. La rete Internet ha livellato le gerarchie di prestigio: per quanto ci si sforzi di emergere, la Rete è tendenzialmente livellante: tutti uguali e tutti sullo stesso livello. Chi cerca di stabilire una gerarchia di ruolo diviene bersaglio. L’autorevolezza moderna, dunque, è un fatto instabile da conquistare quotidianamente.
Come si costruisce un’autorevolezza originale, tale cioè da non poter essere facilmente copiata e riprodotta?
La risposta è insieme semplice e complessa. Si riesce ad essere autorevoli se si ha un serio progetto culturale, se si dispone di un gruppo di giornalisti capaci di condividerlo e di declinarlo quotidianamente, se si è forti tecnologicamnete, soprattutto nel rapporto tra Internet e telefono cellulare.
Personalmente non so valutare quanto incidano sull’opinione pubblica i due quotidiani sardi. So che hanno un’identità storica offuscata. L’Unione non è più soltanto il giornale della Destra moderata cagliaritana, ma lo è ancora in misura rilevante. La Nuova non è più soltanto il giornale della Sinistra borghese sassarese, ma lo è anora in misura fondante. Entrambi cercano di intercettare un certo movimentismo politicamente equivoco che sta scuotendo l’Europa, ma lo fanno senza bussola, a istinto. D’altra parte i quotidiani sardi hanno spesso vissuto stagioni felici in un rapporto fecondo con gli intellettuali sardi. Il guaio in Sardegna è che né l’università né la scuola hanno prodotto nuove leadership culturali, per cui si potrebbe dire che gli unici intellettuali che oggi condizionano le nuove generazioni, soprattutto attraverso gli insegnanti di scuola superiore, o sono morti o sono ottuagenari, e dunque non sono nella disponibilità di una nuova avventura editoriale e culturale.
In questo quadro, è dunque difficile dire quanto valgono i giornali sardi. Ne sanno qualcosa quanti stanno cercando di assumere la proprietà della Nuova che, a detta di tanti, sarebbe in questo momento un problema per il Gruppo L’Espresso per ragioni di antitrust. In poche parole, il Gruppo, con l’acquisizione della Stampa, dovrebbe cedere quote di mercato. Le poche notizie trapelate parlano di una cordata sarda, guidata dai soliti imprenditori resi ricchi (a suo tempo) dal Banco di Sardegna (che prestava soldi a chi sedeva in Consiglio di amministrazione), insieme a una galassia di piccoli investitori. Una sorta di public company guidata da una forte ambizione politica, ma senza vere e robuste garanzie finanziarie, senza un vero capofila, e soprattutto, senza un grande progetto culturale. Ma, a parte questo, come si calcola il valore della Nuova?
Un metodo standard è prendere l’utile medio degli ultimi bilanci e moltiplicarlo per due o per tre o per quattro, a seconda dell’outlook dell’azienda. Se il metodo è corretto, La Nuova varrebbe tra i sei e gli otto milioni di euro. Se poi invece si optasse per l’affitto di un ramo d’azienda, allora bisognerebbe capire quale rendita il Gruppo l’Espresso vuol trarre dall’operazione, ma ragionevolmente dovrebbe stare poco sopra il milione di euro all’anno. Sono numeri diversi rispetto a quelli del Corriere, ma sono sempre numeri importanti; chi dovesse investire questi denari cercherebbe di calcolare il rischio d’impresa. Ecco, nel mondo della comunicazione, il rischio è molto legato al progetto culturale e a chi viene incaricato di guidarlo. Cairo, che viene dal mondo di Publitalia e della pubblicità, ha dimostrato di saper distinguere la componente hard (il mercato pubblicitario) e quella soft (il progetto culturale); da bravo editore ha fatto diventare la seconda il carrello della spesa della prima. Semplice e quasi banale a dirlo, molto complesso a farlo, perché tutto è affidato all’attrattività dei contenuti e dello stile dell’organi di informzazione, cioè a due fattori tipicamente estetici e culturali.
Infine ci sono il pubblico e le banche, l’Alfa e l’Omega del mercato.
Le banche sono intimorite. In Sardegna i ricchi di un tempo non sono più ricchi. La logica valida ancora fino a dieci anni fa di coprire il rischio d’impresa col patrimonio (in genere immobiliare) oggi non è più vigente. È realmente ricco chi ha una buona differenza tra ricavi e costi, chi è ben capitalizzato, chi riesce a farsi pagare e a garantirsi un buon flusso di cassa, chi non ha troppo debito, chi non ha patrimonio inutilizzato, cioè incapace di produrre reddito (case sfitte o invendute, terreni edificabili dove non è più conveniente edificare, alberghi di vecchia concezione dove nessuno va più volentieri ecc. ecc.). Avere patrimonio e non avere soldi è una condizione disastrosa non risolvibile pensando di farsi finanziare dalle banche cedendo garanzie sugli immobili. Tutto questo è finito, però è un problema per le banche che hanno molti dei loro crediti garantiti da immobili che un tempo valevano 100 e oggi valgono 50. Si capisce in questo quadro l’operazione di scorporo del centro stampa che La Nuova ha realizzato e che L’Unione aveva già compiuto tempo fa. Oggi le testate sono meno valide commercialmente se appesantite dal mattone e dalle macchine; ma è anche vero che il loro valore patrimoniale diminuisce, e questo preoccupa le banche in caso di debiti rilevanti dei gruppi controllanti.
Il pubblico segue tutte queste vicende?
Assolutamente no. Se c’è una cosa certa è che il pubblico ha perso quel vincolo di fedeltà al proprio giornale quotidiano che ancora vigeva qualche decennio fa. Il pubblico sceglie quotidianamente e sempre più sceglie sul telefono. Il pubblico è un mercato aperto dove i ‘marchi’ tradizionali hanno ancora un differenziale positivo per qualche anno, ma non di più. Il pubblico ormai non usa modelli gerarchizzati: ogni giorno è una tempesta competitiva per individuare dove ‘mangiare’ informazione. Un organo di informazione è ormai un’azienda culturale che ogni giorno deve creare il suo mercato e il suo pubblico, deve lottare per generarlo. Questa dura legge non è per niente chiara a chi ancora presuppone di agire a partire da una rendita consolidata. E la Sardegna è la terra delle rendite e dei rendistas.