di Paolo Maninchedda
Viviamo in Italia e con l’Italia dobbiamo fare i conti, purtroppo. È interessante notare che oggi esiste una legge dello Stato italiano, il decreto Sblocca-Italia, nella quale una regione virtuosa, l’unica in Italia, si impegna a adottare il pareggio di bilancio dal gennaio 2015. Di contro, ieri il ministro Padoan ha dichiarato che l’Italia approderà al pareggio di bilancio non prima del 1 gennaio 2017. In buona misura la Sardegna è l’unica regione della Repubblica italiana che in un periodo drammatico di crisi accetta una disciplina che punta a liberare risorse vere per gli investimenti e il lavoro e a non fare debiti da spalmare sulle spalle degli altri. Piaccia o non piaccia, la ricetta Paci ci ha messo in una condizione vantaggiosa, almeno moralmente, verso il Governo. Adesso, prima del varo della legge di stabilità, nella quale il Governo deve mantenere i suoi impegni (altrimenti si apre una guerra istituzionale e sociale), noi dobbiamo giocare il nostro vantaggio morale.
Sulle infrastrutture l’Italia deve fare una cosa sola: non ci deve rompere le scatole. Con la manovra di semplificazione fatta ieri in Giunta, il tetto del valore dei cantieri sbloccati o in itinere, in sette mesi di governo, raggiunge i 600 milioni di euro, senza contare i cantieri che verranno aperti nel 2015 grazie allo Sblocca Italia. Quindi, nessuno può negare che sappiamo come fare. Noi cercheremo il modo di prenderci una fetta della dote di Juncker (300 miliardi) per farci la rete principale del gas, per esempio, e ci faremo un bel mutuo per metterci a posto strade, acquedotti e fognature. Quindi, non abbiamo niente da chiedere se non che non ci si fermi con frizzi, lazzi e piante grasse burocratiche.
Sul lavoro e sull’impresa, invece, abbiamo da chiedere. Per esempio, in via sperimentale, abbiamo da chiedere che si estenda il metodo pattizio adottato col Qatar, in questo modo. Si stabiliscono dei benchmark settoriali (per esempio: quanto costano energia, trasporti e costo del lavoro, in un determinato settore produttivo, nell’area europea più efficiente) e si adattano le procedure e le norme in modo che lo stesso traguardo sia raggiungibile nell’area di lavoro o di nuovo insediamento delle nuove imprese in Sardegna. Non solo: se le forze sindacali decidono di fare turni di 8 ore di cui 7 in busta paga e una a capitalizzare l’azienda, nessuno deve interferire. Ancora: se la Regione deve accompagnare questo processo con un workfare efficiente di lavori sul versante della sicurezza del suolo e sulla difesa dal rischio idrogeologico, dove far lavorare la marea di espulsi dall’industria che stanno tra i 45 e i 60 anni, non ci deve essere il solito occhiuto funzionario della Funzione Pubblica che impugna le norme sarde, nonostante non riguardino neanche di striscio un euro della Repubblica italiana. Noi dobbiamo ottenere dal governo di avere una quota del plafond dei nuovi ammortizzatori sociali, non una quota di nuova burocrazia.
Insomma, voglio dire che, giacché si sta realizzando il progetto di una Sardegna che si regge autorevolmente sulle proprie gambe (e di conseguenza non si può più permettere sprechi) dobbiamo chiedere libertà di movimento con la stessa veemenza con cui abbiamo elemosinato soldi nei decenni dell’Autonomia. Dobbiamo rivendicare spazi di libertà, ossigeno, velocità.
Comments on “L’Italia, noi e il lavoro”
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Dobbiamo riuscire a recepire il maggior quantitativo possibile di normativa europea senza la mediazione italiana. Difficile ma non più impossibile.
Ottime iniziative, riflessioni, grandi ed attualizzabili progetti, speriamo non cadano sotto della mafiosa burocrazia.