Non so bene perché sono diventato un filologo con spiccati interessi medievistici, ma certamente ha giocato un ruolo anche l’entusiasmo provato all’università nel sentir parlare dei Giudici sardi, e, in particolare, di Mariano IV.
Forse ha avuto un grande ruolo Dante, declamato e commentato a lezione da Carlo Ricci, nonché l’aver avuto contatti con Giorgio Petrocchi per la tesi di laurea.
Forse ha inciso aver conosciuto Armando Petrucci e aver seguito un suo ciclo di lezioni, lui che non era un solo un paleografo, era un uomo coltissimo, forse colui che aveva letto e schedato più manoscritti in Italia.
Forse ebbe un valore ascoltare una conferenza di Giuseppe Billanovich, che mi lasciò affranto, da un lato, dinanzi a tanta erudizione esposta con grande semplicità e severità, e dall’altro incuriosito e acceso rispetto alla sfida di saperne di più di quanto già sapessi (che dinanzi a Billanovich era veramente poco, anzi, un’inezia).
Forse mi condizionò un amico, mio compagno di università, che ha inciso sulle mie letture di allora (mi suggerì Poesía juglaresca y juglares di Ramon Menendez Pidal, per un verso, e per l’altro il Faustus di Thomas Mann).
Forse ebbe un ruolo un’amica spagnola con la quale trascorsi una brevissima vacanza, in un periodo tormentato della mia vita, che mi regalò Vida de don Quijote y Sancho e mi disse “Tú eres así”. Il caso volle, poi, che una mia collega un giorno mi abbia indicato, senza che io mai le avessi detto della mia passione per Unamuno, San Manuel Bueno, mártir, compiendo così tutto il giro, dall’antichità alla modernità, nell’oscurità che un uomo di fede può attraversare intorno alla sua fede.
Forse fu decisiva la lettura, cui mi costrinse Marcello Cocco, dei più importanti trovatori: lì capii il nesso tra amore e libertà e soprattutto compresi che i medievali lo avevano più chiaro di noi.
Forse tutto questo è stato condizionante, ma certamente un ruolo ebbero anche le lezioni di Francesco Cesare Casula, perché pur essendo stato Casula un uomo accademicamente potente sapendo di esserlo (come sanno esserlo quelli che non sono nati né ricchi né potenti), quando parlava dei giudicati, trasferiva una passione e un interesse autentici. Casula accendeva l’animo di chi lo aveva minimamente infiammabile e io e altri lo eravamo a bassissime temperature. Poi con Casula ci siamo trovati contrapposti, come è giusto che sia: gli incendiari non sanno mai dove va il fuoco.
Il passato mi è ritornato alla mente in questi mesi, perché da un lato Luciano Gallinari, valentissimo ricercatore del CNR ha pubblicato un articolo (La Batalla de Sanluri: un pretexto para una nueva interpretación nacionalista e identitaria de la historia medieval sarda) nel quale mi contesta di essere uno dei fautori di una nueva interpretación nacionalista e identitaria de la historia medieval sarda, cosa nella quale non mi riconosco (e risponderò, perché la discussione merita di essere approfondita), ma che mi ha indotto a chiedermi se non fossi diventato un incendiario anch’io. La risposta è no, ma non la pronuncio per spirito reattivo, direi piuttosto al termine di un serio esame di coscienza. Dall’altro, una serie di articoli stanno correggendo tanti miti arborensi e svelando che molti hanno sbagliato sugli Arborea, non per partigianeria postuma, ma per postuma passione per i Bas-Serra e per la gloria ‘nazionale’ che essi possono rappresentare e riverberare (personalmente sono contro il processo di divinizzazione degli imperatori, di cui gli imperatori ridevano, come ci insegnano le ultime parole pronunciate da Vespasiano).
Per esempio: per circa un quarantennio si è creduto che i sardi avessero ucciso un funzionario catalano di Castelsardo, cantando una sorta di loro canzone militare: Ellori ellori elliri liri doy. Giampaolo Mele, ordinario di musicologia e storia della musica nell’Università di Sassari nonché direttore dell’Istituto Storico Arborense, è andato a rileggersi le fonti in originale (Sa Juighissa: parole e suoni dal Medioevo all’Eleonora d’Arborea di Dessì-Oppo -un approccio interdisciplinare) e ha rivelato che le cose non stavano proprio come venivano raccontate, ma che invece i Sardi avevano una melodia propria con refrain Ellori ellori elliri liri doy, una sorta di canto comune, per non dire con un anacronismo ‘nazionale’, che i catalani odiavano e che il funzionario trucidato (non dagli Arborea, ma da Damiano Doria, cui Mariano IV lo aveva perfidamente consegnato) aveva probabilmente impedito di cantare. Non dunque un canto di guerra, ma un canto di resistenza che un funzionario zelante aveva impedito di cantare, pagando con la vita quel divieto (e forse altro).
Un’altra convinzione ormai venuta meno nasce, invece, da un errore di lettura dell’antica scrittura gotica cancelleresca dei documenti degli archivi catalani. La questione riguarda niente meno che le insegne degli Arborea, che vengono descritte nei Procesos intentati da Pietro IV contro Mariano IV a partire dal 1353. Vediamo il testo nella versione divulgata: “vexilla alba, <h>unciam intus pictam arborem viridem…sine aliquo signo regali” = trad. vessilli in campo bianco, con dentro dipinta un’oncia e un albero verde, senza alcuna insegna regia (cioè senza i pali catalani). Cosa ci facesse un oncia nel vessillo degli Arborea e come fosse rappresentata non incuriosì nessuno perché tutti fummo presi dalla descrizione dei vessilli sardi con l’albero diradicato. Fino a che, proprio Mele, ha avvertito tutti che nelle fonti non c’è scritto hunciam ma una parola abbreviata, hntia, che tutti sappiamo doversi scioglier con habentia, per cui la frase va trascritta e letta così: vexilla alba, habentia intus pictam arborem viridem…sine aliquo signo regali” = trad. vessilli in campo bianco, che hanno dentro dipinto un albero verde, senza alcuna insegna regia.
Non c’è da stupirsi di tutto questo. Anche recentemente sono stati pubblicati e propagandati alcuni documenti attribuiti a Eleonora seriamente indiziati di essere falsi, per anacronismi presenti, per le formule usate, per struttura del negozio giuridico, per il contrasto che ne deriva con documenti ed eventi coevi, eppure non riconosciuti come tali sull’onda dell’entusiasmo e della fama che Eleonora è in grado di elargire a chi la frequenti anche a distanza di secoli. Viviamo di queste piccole glorie piuttosto che di verità, sempre rifiutando ciò che siamo stati, sempre rinunciando a essere pienamente oggi ciò che meritiamo di essere.
Bello. La ricerca elabora e si corregge in un lavoro collettivo in cui poco importano i singoli.
……e di giggiriva !
Prof., lettura tosta, ma lei nella vita pubblica, non mi ha trasmesso l’idea che sia un incendiari, ma neanche un pompiere.
Interessante.
Sa libbertade e responsabbilidade, personale e colletiva, no est a che afungare o a nos interrare in su passadu (chi tocat a connòschere, su chi si resessit a connòschere ma chi est meda ‘néula’ cantu prus si torrat issegus): est libbertade e responsabbilidade, personale e colletiva, como, inoghe, hic et nunc, e cumprèndhere e fàghere de cristianos in sa ‘néula’ de su presente.
S’àteru est totu a fuire, ma no timindhe una “eruzione vulcanica” pro nos frànghere e appartare: tio nàrrere própriu, pro lu nàrrere cun sas peràulas de Erich Fromm, fuire dae sa libbertade e responsabbilidade personale e colletiva chi est su piessignu chi menzus e prus distinghet su cristianu dae sos animales.
E gai est a fuire dae nois etotu. Invetze de nosce te ipsum zogamus a fuire che dae cosa mala invetze de fuire dae su male?