Da Todde a Marini Ho letto sempre con gusto i libri (e gli articoli) di Giorgio Todde, scrittore di qualità non meno che medico oftalmologo della nostra sanità pubblica, competente e garbato sempre. Mi è riuscito facile inserirlo in quel filone di autori che – partendo magari da Mario Tobino (per dire delle personali preferenze) – hanno tratto dalla esperienza professionale, e da quella medica in particolare, ispirazione e motivo per il loro inoltro letterario: da questo derivandone poi un grande e meritato successo di pubblico.
Tanto più di lui ho apprezzato i cinque romanzi della saga mariniana, via via pubblicati – dal 2001 al 2007 – dal Maestrale e/o da Frassinelli, e in ultimo (nel 2011) raccolti in un solo volume di ben 800 pagine dall’editrice nuorese, appunto Il Maestrale, sotto il titolo riassuntivo di Le indagini dell’imbalsamatore.
Ai cinque, ma a distanza di qualche anno – un decennio addirittura, arrivando esso appunto al 2019 – un altro volume si è aggiunto alla serie, ancora per i tipi de Il Maestrale: Il mantello del fuggitivo. La morte prematura, e dolorosa, dello scrittore, nell’estate del 2020, ha messo punto anche all’avventura umana del suo Efisio Marini: dico di quell’Efisio Marini trasferito in una suggestiva ed originale rielaborazione fantastica e così, per suo riscatto morale e risanamento d’un orgoglio ferito, riportato da Napoli – città d’elezione e residenza – alla sua Sardegna, ora in un indefinito centro della provincia rurale (come ne Lo stato delle anime) ora nel capoluogo stesso e nel capoluogo soprattutto (come, in pieno o in parte, negli altri romanzi). Darei infatti per improbabile che un altro lavoro, se non allo stadio ancora di bozze o di sommari appunti “per una storia”, possa aver lasciato alla nostra cura l’autore di tanta piacevole produzione “noir” che così ampio e convinto consenso è riuscita ad ottenere non soltanto in patria ma anche all’estero, in mezza Europa – dalla Spagna alla Germania, dalla Francia all’Olanda alla Russia addirittura –, e perfino oltreoceano, in Brasile per esempio.
Tutto il mondo intellettuale e di relazione di Efisio Marini, fatti e personaggi, entra nei romanzi, che si presentano come complesse e complicate rappresentazioni collettive situate in un tempo rimescolato, che a quello storico fa soltanto generico riferimento, di esso intendendo l’autore cogliere ed offrire a noi essenzialmente lo spirito e le atmosfere. Il medico anatomopatologo cui le circostanze suggeriscono di sostituire al camice bianco l’abito grigio, anonimamente borghese cioè, dell’investigatore è sì, nella trama delle diverse narrazioni, il signore assoluto della scena con la sua insuperata genialità risolutiva, ma è anche colui che, enigmatico o criptico nel suo ordinario e per statuto “biologico”, sa richiamare – convocandola ad una specie di confessionale del vero e del falso sempre in stretto e forse inconsapevole nesso e di complicata scissura – una larga folla di attori che si muovono da veri e propri coprotagonisti, tutti necessari ancorché, all’apparenza, eccentrici o di profilo marginale. Ciascuno (folle naturale) è portatore di un qualche segreto che soltanto l’intuito e lo spirito analitico del detective riesce a progressivamente penetrare destrutturandolo. E lo fa, questo sfarinamento, azionando un ventaglio di arti personali schermate, appunto, dall’enigma del suo volto cespugliato – che, pur nei passaggi dell’età, pare un volto della riserva – e della sua voce – che è una voce parca all’inverosimile di parole e piuttosto sembra riempirsi di silenzi, o di avari monosillabi che certificano le ricezioni.
La scrittura frammentata di Todde racconta proprio l’inconoscibile metodo investigativo del suo protagonista che, invariabilmente, porta al risultato ed è rivelazione dei più intimi tormenti, mentali e spirituali, del Marini perito di settore, esperto dunque non dell’ovvio o dell’apparente, ma degli sconosciuti congegni fisici dell’umano così come dei suoi possibili innaturali e ferali sedimenti. Potrebbe dirsi che si tratti di tormenti che generano e comunque riflettono un parallelo, o una corrispondenza, fra i livelli consistenti dell’ispezione anatomica dei corpi e quelli immateriali del pensare e del sentire proprio ed altrui.
Il romanzo e la storia Da ormai svariati decenni, ma con speciale dedizione negli anni a cavallo di secolo, mi sono consegnato anche io, come Todde e come altri studiosi di diversa vocazione – dallo storico (considera Corrado Zedda o Luigi Serra) al vignettista (come Mario Fundoni ed Antonello Lutzoni), naturalmente allo scienziato (quale è, abile e sapiente epigono, Antonello Maccioni) ed al biografo (ecco Giorgio Bertorino, pronipote) – alla fatica della ricerca, all’approfondimento della conoscenza di Efisio Marini, della sua personalità e della sua opera oltre il mito.
Riferendomi adesso soltanto alla prima serie mariniana, quella marcata dalla frequenza delle uscite fra 2001 e 2007, dirò ch’essa costituì per me, a suo tempo, il materiale di discussione e confronto con un numero impressionante di amici doppiamente interessati alle peripezie di vita del medico pietrificatore: intrigati dalla conquista scientifica entrata nel suo merito personalissimo, e coinvolti anche, per magia di Todde frequentatore di pupille e d’umor vitreo, nel versante letterario, trasfigurato cioè, della sua avventura umana. (Ne potei allora produrre conferenze, articoli, perfino un testo teatrale e tutto spero di poter presto presentare in un’utile dispensa).
A tanto – a quei titoli cioè – concorreva forse la sdatazione delle vicende portate sul foglio, mai fedeli al calendario canonico, perché ci parve volta a volta di dover saltare da un’età mediana ad una anticipata di preparazione e sorprendente sperimentazione chimica, ad un’altra avanzata, anziana e quasi di congedo perfino dalla vita, ad un’altra ancora intermedia e di impreviste relazioni con le autorità dell’accademia continentale, e così via… Non dunque una sequenza di fotogrammi rispettosi delle tappe di una certa scontata e regolare evoluzione, ma tutte le volte come una paracadutata in uno spazio casuale della storia, nell’indipendenza di una monade… Soltanto i nomi di Carmina e Rosa e (vivo-morto) Vittore potevano, in un modo o nell’altro, costituire un fil rouge nel disordine delle scene. Li ricordo i titoli di quella prima collana: Lo stato delle anime (2001), Paura e carne (2003), L’occhiata letale (2004), E quale amor non cambia (2005), L’estremo delle cose (2007).
Cagliari massonica Fra il molto che mi prese nell’approccio alle pagine sempre impreviste, o tanto più impreviste nelle scene agite quanto vaghe e soltanto ammiccanti nelle rappresentazioni fisiche della Cagliari trascorsa, vi fu anche il richiamo a fantasiosi e seducenti, irreali ma pure maliosi, quadri massonici cittadini fra Castello e la Marina.
Posso ritenere che essi siano entrati nella immaginazione e quindi nella elaborazione dell’autore da due correnti, chiamiamole così, opposte e convergenti: dalla fama di virtuoso libero muratore che ebbe, in vita e anche dopo, il dottor Marini e – come ne scrivevo cinque o sei anni fa, invitato dalle logge cagliaritane a una conversazione sull’argomento (“Efisio Marini libero muratore: i documenti e le supposizioni”) – … dalla «radicata opinione di Todde, che io ritengo sbagliata ma che pure è da rispettare, che la Massoneria, proprio quella cagliaritana, costituisca, oggi come ieri, o più di ieri ancorché nella novità della merce trafficata, una cupola aggregante Mattoni (edilizia speculativa) e Medicina (magari rovinosamente carrieristica). Insomma che gli artieri riuniti nelle tante logge cittadine costituiscano quella massa critica capace di cambiare il segno, per vocazione ed in struttura, della libera democrazia e/o della correttezza amministrativa, dei piani regolatori e dei primariati ospedalieri. E magari anche d’altro. Questo dunque ben oltre la fastidiosa… occupazione degli spazi di parcheggio delle vetture durante le ore seròtine delle quotidiane tornate rituali in Castello, fra i ceri accesi nei templi della Sapienza, della Bellezza e della Forza ed i busti nobili di Mazzini e Bovio confusi fra i labari nei passi perduti, motivo di polemica frequente dello scrittore, al tempo domiciliato all’ombra di San Pancrazio, con le logge di palazzo Sanjust».
La cinquantennale conoscenza dell’ambiente, credo sufficientemente approfondita, mi portò allora e mi porta oggi – quando pure non mancano ragioni di umiliante frustrazione per l’intervenuta dichiarata ed imbecille cesura con la tradizione civile che rimandava la missione delle logge alla buona salute delle istituzioni pubbliche e sempre, comunque, al “pensiero grande” dell’umanesimo liberale – a conclusioni diverse. Sì, a conclusioni altre, oltre i dottrinarismi di convenienza che, come ricorda Bertold Brecht nella sua celebre “Lode del dubbio”, smentiscono i fatti per accendere le congetture. Direi così, guardando lo sviluppo gradualista del secondo Ottocento cagliaritano, dopo cioè le vicende della camarilla e della consorteria municipale che si susseguirono lungo gli anni ’50 e ’60 – il tempo di maggior odio locale verso il giovane Marini e (nella grande storia) di preparazione ed accompagnamento dell’unità nazionale –, ed almeno fino all’abbrivio dell’età di Bacaredda: a conclusioni suffragate da quel tanto che conferisce, a bocce ferme e criticamente, la storia cittadina per quel che è stata per davvero, fra impresa e professioni, accademia e amministrazione, riesplorata nelle biografie dei partecipanti e tutte emergenti nelle grandi lapidi carezzate in occasione delle ripetute “passeggiate-memento” al monumentale di Bonaria. E cioè?
Come “centro di unione” fra persone altrimenti distanti, se non estranee e perfino talvolta mutuamente opposte, la Massoneria funziona – o dovrebbe funzionare – come fratellanza civica (e in quel tempo si sarebbe detto anche patriottica) per alti principi condivisi di segno umanistico, mai per mercato venale. Ché se così scadesse, essa contraddirebbe se stessa affossando la propria identità, così nello scenario della grande città come in quello ipotetico d’un qualsiasi paese di periferia promosso Oriente latomistico… Gli incontri, o gli intrecci, erano e sono quelli professionali, muovono dalla scuola e attraversano le complessità delle istituzioni pubbliche dell’insegnamento e del governo amministrativo e militare, e quelle della libera scienza e dell’industria e dei servizi nella infinita molteplicità delle loro forme: non soltanto (ovviamente) nella piena legalità, ma anche nel gusto del fare costruttivo, come in una logica di avanzamento per realizzare l’obiettivo motore del tutto: arricchire i lasciti ricevuti – esiti essi stessi di tanta fatica – per portarli in dono al futuro, alle nuove generazioni cioè, e sperando in migliori impieghi.
Perché mai dovrebbe essere, questo, un mestiere impossibile, una copertura ideologica di traffici invece mercantili e pagani? Non avviene così anche nelle famiglie, nei passaggi da padri e madri a figli? E perché quel che s’opera nel privato non potrebbe operarsi anche nella larga dimensione pubblica?
Ma tutto è diverso nella visione di Giorgio Todde. La dipintura della Libera Muratoria come cupola o forse piovra egli la mette in bella scrittura un po’ in ogni sua opera, ma tanto più, all’interno della saga mariniana, questo fa nel terzo volume della serie, forse il più bello per la ricchezza delle fascinazioni che l’autore riesce a passare, nell’apparente noncuranza, al suo lettore: L’occhiata letale. In cui, di fianco al giovane Efisio – profilato diciottenne appena, innamorato di Carminetta «labbra rosse e pelle scura» con cui amoreggia sotto uno dei centomila frutici di capperi dispersi in città –, di Efisio all’esordio delle sue ricerche e dei suoi esperimenti, compare una figura comprimaria, fra le altre tutte quante ben abbozzate o stagliate con i loro carichi di mistero: quella di Serafino Ampurias, «padrone della tipografia più importante della città» nonché capo presunto, o forse aspirante (per risaputa fama), della loggia Arcadia e gran regista di manovre così oscure che più oscure non si potrebbero immaginare. Ma veramente ci sono tutti, in un allargato rassemblement cittadino, fra affari ed arte, viaggi e politica, nel teatro de L’occhiata letale, storia di un tesoro immenso celato a tutti tranne che alla cupola: da Vincenzo Brusco Onnis il mazziniano generoso che nel 1848 – l’anno delle costituzioni e anche della costituzione albertina – dirigerà, a Cagliari, Il Nazionale e il dottor Nonnis famoso docente di ostetricia della nostra università, e Delessert il fotografo della prima stagione isolana, e anche il Teatro Civico e la Reale Udienza, l’Hotel del Progresso e il cimitero «costruito su un colle luminoso, sopra un lago sotterraneo d’acqua salata», il Gran Caffè tempio delle granite e le zanzare estive, il via vai portuale e la Madonna dei naviganti, i bastioni di Santa Croce e la piazza delle Grazie (dove abita Carminetta), il villaggio dei pescatori, la biblioteca degli scolopi e altro ancora…
A far quasi da pendant alla famiglia di Girolamo e Fedela Marini nata Marturano (con loro i due vecchi iaius e i sei figli – Salvatore ed Efisio, Virgilio ed Irma, Vincenzo e Remigio – nella borghese casa della Pola abitata anche da un fico, un cavallo e quattro muli) sembra sia proprio la loggia che Serafino convoca, per autorità propria o per delega, allo scopo di discutere questioni importanti. Pare simile la regolazione degli interventi: anche in casa Marini «se parla il nonno non parla il padre, se parla il padre tace il figlio e in tutt’e due i casi il figlio sta zitto», appunto come gli Apprendisti nel Tempio, e gli altri ad aspettare il turno normato dai segnali del 1° e del 2° Sorvegliante e concesso dal Maestro Venerabile.
Gli annali come sfizio
S’intende, come ho sopra accennato, che a nessuna fedeltà al calendario storico si sente impegnato lo scrittore che colloca quindi la sua cronaca in un anno immaginato e non dichiarato, che può ben essere il 1853 – quello del 18° compleanno di Efisio –, o magari il 1848 della costituzione savoiarda e del giornale di Brusco (ma invero anche del regresso della Reale Udienza!), o forse il 1854 della visita sarda di Delessert, o forse ancora il 1858 degli accordi del ministro Cavour con l’imperatore dei francesi in vista del nuovo fronte antiaustriaco… Quel che importa qui è che Cagliari sia quella ancora stretta fra le sue fortificazioni molte volte secolari, con quartiere diviso da quartiere (ancorché, a valle, con mura in progressivo alleggerimento), chiuso sempre il Castello dei palazzi e chiuso il porto da una spessa cortina bucata da appena due calate a mare… La città dei trentamila abitanti, la città commerciale e impiegatizia, dei pisciatinteris, la città anche… parassita – si può dire? lo han detto e scritto fior di autori come il Baudi – della sua provincia rurale che fatica ogni giorno anche per lei.
Nel tempo e pur in quel tempo mobile che sembra accogliere i molti tormenti de L’occhiata letale, l’Isola è promossa alla fusione perfetta con la terraferma ma ha perduto il vanto dell’arcivescovo primate nell’antico episcopio di Santa Maria (ché don Emanuele Marongiu Nurra ha sfidato il governo di Torino e s’è fatto esiliare nell’isola Tiberina), e nel rettorato ancora dedicato alla Vergine Immacolata ha consegnato il comando ad uomini che combinano il sentimento di chiesa a quello per il ministero liberale, da Giovanni Borgna a Rafaele Furcas e Giovanni Meloni Baille – che tanti affacci avranno anche a palazzo di città (sodali del marchese di San Tomaso sindaco eterno) – ed ancora da Francesco Ortu a nientemeno che Giovanni Spano, canonico della metropolitana e l’uno e l’altro…
Comanda il conte Francesco Maria Serra, parlamentare e magistrato, a Cagliari, e ogni filiera di potere rimanda per un decennio e anche più a lui, signore della camarilla come poi, a fiato calante, della consorteria… Che non è però Massoneria o lo è almeno in parte ed in ultimo. Anche perché l’Ausonia – prototipo d’ogni loggia futura – si presenterà sulla scena soltanto nel 1859 e sarà in quel di Torino, mentre Cagliari ne avrà una filiazione soltanto tre anni dopo per merito – sì per merito, non per colpa – d’un consigliere di corte d’appello fiondato qui, vedovo di Cavour, per tre anni e non di più, per seminare e chissà se anche per raccogliere. Gli si ricuserà infatti, assorbendola nell’indifferenza di sempre, la grande idea dell’accademia umanistico-scientifica con cui avrebbe voluto regalar premio alle giovani professionalità per lo sviluppo moderno della società isolana…
E’ vero, taluno potrebbe dire di relazioni della società dei cavouriani (similfrancesi) di Castello, riuniti (si dice) a palazzo Villamarina – a cominciare dal Venerabile Scannerini in forza all’Ospedale militare e dal subVenerable (e deputato del Grande Oriente) Satta Musio vicepresidente del Tribunale o dall’Oracteur Gavino Scano – con questo o quel tardo camariglio governativo rimasto padrone delle domestiche stanze del viceregio… Potrebbe dire – lo dice il Cocco Ortu, giovanissimo nemico giurato dei circoli chiusi, lo dice uno storico moderno come il professor Del Piano – che il Corriere di Sardegna sia manovrato dalla consorteria e però resta l’ “equivoco perché” di una presenza progressista nella redazione del giornale – metti Felicino Uda –, come resta indubbio che uomini della sinistra repubblicana come Enrico Serpieri abbiano messo anch’essi non soltanto piede, ma anche mani e soprattutto testa nella loggia, e poi nelle logge cariche d’orgoglio e pronte ad ostentare il loro labaro per rabbuiare il nuovo presule diocesano, già oblato missionario nell’estremo asiatico…
E tutti quegli uomini di mare, i calafati compresi, inclusi anch’essi nei piedilista, e gli illuminati dottor Francesco Barrago l’evoluzionista darwiniano ed avvocato Vincenzo Dessì Magnetti il positivista segretario dell’università, anch’essi tutti potrebbero davvero essere inquadrati nelle falangi della consorteria? La loggia Vittoria, e poi la Gialeto e la Libertà e Progresso, un certo giorno anche la Sigismondo Arquer – ma sarà allora tempo di Crispi e Giolitti, di Zanardelli e Pelloux – potrebbero mai essere liquidate come prodotto confezionato da volontà lontane e irrispondenti? Il dottor Efisio fresco di laurea in medicina (1857, dopo il baccellierato del 1854 e la licenza del 1856), e di doppia laurea in scienze naturali (1861, a Pisa), aperto alle larghe esperienze scientiste (e universaliste) della colta Toscana, anche lui, artiere della loggia scozzese Fede e Lavoro, potrebbe mai essere collocato nelle algide rigidezze di ingorda convenienza d’un qualche ignoto e inconoscibile barone delle nostre misere valli di sussistenza, o d’un qualche conte vassallo obbediente del partito al governo?
Nato in una casa di via San Francesco al Molo, nel mezzo della muraglia cresciuta dirimpetto alla chiesa dei paolotti, e trasferitosi ancora bambino in via Sant’Eulalia, in un palazzotto che il Cima impreziosirà d’una facciata sobria e però ammiccante agio e soprattutto rango, Efisio Marini è esploratore nato e procede senza attendere autorizzazioni: col suo mulo raggiunge il promontorio di Sant’Elia e le rive di Santa Gilla verso Elmas, e qua e là graffia, scava e raccoglie fossili millenari… Conosce perfettamente la zona di Bonaria con la sua secca puzzolente e il suo camposanto del riciclo, certamente conosce anche l’altro sepolcreto di San Paolo (quello dei colerosi del 1855), conosce l’ospedale di Stampace fresco ancora di calce e di primi ricoveri, conosce a menadito il Castello dell’università, dei tribunali e della cattedrale, conosce le locande e le bettole che marcano ogni strada tanto più attorno al porto dove ha lo scagno suo padre Girolamo, conosce tutte le caffetterie che, piene sempre di avventori, sono teatro permanente di chiacchiere perditempo e di commenti ai notiziari giornalieri della Gazzetta, conosce ogni piazza cittadina così come ogni metro di sa Costa, al cui altare suo zio il canonico Marturano, parroco-cappellano dei genovesi, benedirà un giorno le sue nozze “riparatrici”, lui ancora studente…
Quella volta che padre Venanzio gli mostrò l’elenco degli “incappucciati”…
Una volta padre Venanzio De Melas, in forza al ginnasio-convento di San Giuseppe Calasanzio, a un passo dalla torre-prigione dell’Elefante, mise «davanti al naso» di Efisio Marini, il suo allievo prediletto, un foglio: «ecco l’elenco di tutti gli incappucciati della città che ho preparato. Ho digiunato per scriverlo saltando il mio pranzo… Leggi l’elenco: sembra che questa sia una città di incappucciati. E’ tutto nei documenti del capitolo…». La riferisce, Todde, questa consegna che si rivelerà infine la spiegazione d’ogni cosa. «Efisio scorre il foglio: l’elenco è lunghissimo. Le arciconfraternite e le congregazioni incappucciate sono numerose: di Sant’Eulalia, del Santissimo Crocifisso, del Sangue del Golgota, del Giuramento Santo, del Costato Sanguinante e molte altre, tutte canonicamente elette e sostenute dal dolore sacro…». Ma incappucciati della Santa Religione o incappucciati della Libera Muratoria, armati o schermati dalla squadra e dal compasso?
Cagliari – gli spiegò il padre scolopio – «è una città di incappucciati», in ogni famiglia «c’è uno che, almeno una volta l’anno, si infila un cappuccio. Altri più spesso». Ed Efisio si domandò allora: «ma perché gli uomini si incappucciano?»… La risposta forse nascondeva più verità, e tutto era nella segreta riflessione del ragazzo: «il cappuccio nasconde i peccati, si fa attraversare dal canto rauco del pentimento alcolico… Senza il vino sarebbe insopportabile tutta questa paura, ecco perché gli incappucciati bevono». Comprese bene: si trattava degli incappucciati delle confraternite nate spagnole, nel tempo delle pestilenze. Ma perché padre Venanzio aveva voluto mostrargli quelle liste? E di più, e in tutta fretta: come individuare «a quale confraternita segreta» apparteneva «l’uomo silenzioso» che aveva ordinato, in città, e nel tempo della cronaca non della storia, «la morte di Jaccu»?
Tutto si affacciò allora, rimescolato d’improvviso, nella testa di Efisio, ispirandone nuove ipotesi e nuove previsioni, e anche, di conseguenza, nuovi passi. Eccoli dunque i fotogrammi della magica pellicola riportati al presente. Quando incontra il dottor Eugenio Nonnis, all’Ospedale nuovo di San Giovanni, nella salita di Stampaccio, Efisio scorge un libretto «dal titolo, che legge rovesciato, La Loggia di Napoli…». Chissà che non sia la loggia che frequenta, o frequenterà, anche il filosofo e giurista Giovanni Bovio, l’uomo che un giorno gli cambierà la vita e grazie a cui Napoli si gemellerà a Cagliari… Chiede al medico, Efisio, che cosa sia la loggia napoletana. Sbaglia però la domanda, perché patisce, immediato, un infastidito respingimento. Insomma, è congedato all’istante, e senza risposta, per tanta impertinenza.
Torna dunque a casa, di corsa, «e pensa che la loggia, qualsiasi cosa sia, non è una sola, ce n’è una a Napoli, ce n’è una a Cagliari e forse in tante città… e che non se ne parla, non se ne parla… e che lui continua a non sapere a cosa serve e cosa fanno… vanno in giro incappucciati a torturare e a cercare tesori? Le polizie dei regni d’Italia li perseguitano?». Dovrà approfondire, chiedere a chi ne sa o ne può sapere.
Il nuovo incontro è con il maggiore Reginaldo Canelles «avi catalani… sangue da padrone, dritto, bruno e lucente», amato dalle donne e soprattutto da Marianna Arthemal di Castello, ufficio alla Reale Udienza. «La Loggia Arcadia? E cosa ne sai tu? Efisio, bada, io ti ho sempre ascoltato, anche aiutato… ma ora potresti bruciarti! Attento», domanda o avverte o minaccia, «guardandosi gli stivali lucidi», l’altezzoso ufficiale.
Efisio, giovane sì, ancora ragazzo anzi, ha aiutato in più occasioni il signor maggiore, il quale dovrebbe essergli grato e muta presto, infatti, il suo tono: «Comunque notizie sulla Loggia Arcadia non posso dartene! C’è la politica di mezzo, il parlamento di Torino, il ministro Cavour… Cose grandi, alte sopra le nostre teste di poveri isolani… figuriamoci sulla tua testa! Io mi accontento, Efisio… Anche tu… Devi studiare, partire… Lontano da qui… Sino a ora è stato un esercizio, bello, grande, ma un esercizio… Questa è una città è di teste sottomesse… un popolo di sottomessi… Hanno paura anche di guardarsi intorno… Non è un posto da eccezioni…». A «ciuffo basso» Efisio ascolta ma non s’arrende.
Insiste Efisio con il maggiore Canelles e baratta la notizia straordinaria di dove si trovi «il tesoro dei Boyl» con quella, che a lui più interessa, riguardante l’Arcadia: «Se voi mi dite tutto sulla Loggia Arcadia, ma badate, proprio tutto, io vi farò trovare il tesoro come vi ho fatto trovare l’anello nelle budella di Tatàno…».
Altra scena. E’ Canelles, adesso, a porre domande al tipografo che abita nella casa dei gatti, in via San Leonardo, ad un metro dalla chiesa più bella della Sardegna, ed è infuriato «per aver ricevuto una terza occhiata putrida… la terza in tre giorni». E con quale messaggio minaccioso?! «La Loggia, Ampurias, la loggia di cui vorreste divenire il capo. Appoggia i cavouriani, in città, è vero? O sbaglio?». Risponde Serafino: «No. Sbagliate a dire che voglio diventare il capo, come dite voi». «La loggia versa in condizioni economiche preoccupanti, o no?». «Non sbagliate». «E un tesoro potrebbe risolvere i vostri problemi? Anzi, i vostri personali problemi, di predominio sulle trentotto persone che vi riconoscono, sì, capacità di intessere buoni e complicati rapporti col continente, ma…».
Discussione serrata. Serafino Ampurias vorrebbe abbassare i toni, rimandare a Nonnis ogni interrogazione sull’Arcadia, per il resto si tratta di politica e ognuno ha le sue preferenze: «Non mi pare ci sia colpa nel sostenere l’onorevole Cavour…». Ribatte Reginaldo Canelles: «Ampurias, i frammassoni raccolgono monete d’argento e d’oro. Ma in quali campi crescono, qui da noi, tesori sufficienti al progetto dell’onorevole Camillo Benso?».
Ma chissà se davvero è politica o altro… Padre Venanzio ha le sue idee, quelle stesse che un giorno metterà su carta l’autore (forse un aristocratico clericale decaduto) dei famosi “goccius de is frammassonis” quando scriverà, balordo o profeta chissà «Ponei fogu a is framasonis / ch’inci pappanta su Casteddu»: «La loggia… la loggia non è un pericolo… tutti nomi innocenti… al massimo rubano qualcosa dalle tasche della gente, tartassano qualcuno, avvocati, medici, giudici… I soliti mali del mondo… Ce n’è uno, però, che…». Si riferisce agli incappucciati delle confraternite religiose o, come sempre più probabile, a quelli della Libera Muratoria?
Insiste, rauco, lo scolopio ora proprio male in arnese, con in corpo il dolore del cilicio: «c’è uno che bisogna temere… Non ce li portiamo per caso i nomi, non ci capitano per caso… I nomi vengono dalla famiglia e continuano nella stessa famiglia… I nomi determinano tutto perché durano, non si consumano, non invecchiano, sono sempre gli stessi… I nomi ci conservano… E quando si muore non muore anche il nome… Il nonno di quest’uomo si chiamava proprio come lui… e lui, che figli non he ha, ne metterà al mondo uno solo per ripetere il nome… Questo è riprodursi… Gli basta una donna qualunque che se lo dimenticherà subito e la mamma, quando vedrà il figlio senza espressione come il padre, si spaventerà, e lo lascerà da qualche parte dove il padre andrà a riprenderselo… e lo alleverà come si allevano gli assassini: con poco…».
Vale sempre la domanda: si sta riferendo alla squadra e al compasso dell’oggi oppure alle confraternite della parrocchiali cittadine della storia ma anche del presente?
… e quando il dottor Nonnis gli nascose il libro della loggia
Serafino Ampurias ha, nella lettura della sua personalità che ne offre Giorgio Todde, un che di scostante e d’opportunistico, mostra «naturale disprezzo per gli altri e per gli abitanti di questa città, lenti, timorosi, imbottiti di chinino». La sua «mente organizzata» porta il pensiero pieno di sicumera ai più larghi scenari, forse per giustificare il suo fare attuale: «Certo, qualcuno ha visto ma nessuno ha sentito la mia voce né può riconoscere quel boia di Tidòri. Quindi sono solo sospetti e veleni che vengono sicuramente dalla Curia che ci odia. Hanno estinto i fratelli di Roma e vorrebbero spegnere la nostra voce anche qui. Ma le logge si ricostituiscono… Altro che loggia di liberi fratelli, altro che massoneria! Condannate le nostre associazioni perché temete per la vostra… Voi lo sapete che la Fenice è nata molto prima delle vostre Chiese! E vi sopravvivrà! Risorgerà… e con lei tutti i fratelli che avete condannato, esiliato, torturato e bruciato! Parlerò con Brusco Onnis… lui è ispirato… è uno squilibrato e legge nelle viscere degli uccelli… è mazziniano, è vero, ma è un fratello…».
Al Gran Caffè sotto i bastioni Brusco, il nipote del vecchio Cao Diaz reggente il governo dei giudici, raccoglie gli sfoghi e gli allarmi di Serafino Ampurias: «la Reale Udienza si sta occupando di me, e ancora più se ne sta occupando, credo, quel nido di serpenti della Curia».
Come potrebbe proteggerlo il sistema del Grande Oriente? Brusco abbozza una risposta: «Tu sai che in Piemonte e Liguria tutte le logge si stanno riunendo per opera di Zambeccari, e Costantino Nigra tiene i contatti con i fratelli di Francia. Stiamo rinsanguandoci e il nostro profeta è in armonia col conte Camillo… Qua siamo lontani, è vero… Persino il re è un fratello. Non c’è Curia che tenga! La storia, che prima andava a piedi, ora galoppa su un cavallo purosangue e i popoli bruceranno i tiranni. In Piemonte e in Liguria i figli della vedova sono tanti, affratellati sino alla morte, che non temiamo, e anche oltre». E conclude declamando qualche suo verso: «… l’armonia del ciel darò».
Il tipografo di Castello – sarà quello del Corriere di Sardegna? o dell’Avvenire?… e l’uno e l’altro di Giovanni De Francesco… più probabilmente sarà quello della Gazzetta popolare – è per il fare. «Il Gran Maestro Nonnis è pieno di belle frasi, conosce la storia dei simboli, degli uomini liberi, della nostra loggia, ma quando si tratta di inviare uomini per mare, di comprare armi, di stampare fogli… tace! Lui studia! E con che cosa la trionfa la repubblica? Con gli sforzi degli altri? Col sacrificio dei martiri del continente? E chi combatte qua, in quest’isola arida, i sacerdoti, frati, domenicani, scolopi e vescovi e gli altri nemici? Te lo dico io: Serafino Ampurias… da solo».
C’è il problema Efisio: ci sarà da fidarsi? «Anche la Gazzetta lo ha scritto che l’idea dell’anello nella pancia di Tatàno è sua. Inoltre Sezzè Lunis ci ha subito riferito dell’idea del tesoro. Beh, sin qui nulla di strano: il ragazzo ha semplicemente trovato anche lui le memorie di Esteban Boyl… E qui c’è lo zampino di quello scolopio che a noi liberi fratelli ci studia come un dottore in scienze naturali studia gli animali, classificandoci, contandoci, descrivendoci e frugando nei nostri segreti. Perché questo ragazzo fa tanto chiasso? Un giovane esibizionista… Non potrebbe mai essere un fratello… Non lo spinge altro? E che diamine ne so io di cosa muove questo ragazzo, pupillo di Venanzio? Magari lo manovra proprio quel sacerdote diabolico! Cosa so di questo Efisio…».
Brusco imbocca la strada della Reale Udienza (lui repubblicano?) e confida al potente zio: «il clero e il maggiore Canelles… perseguitano un fratello». Per parte sua, nella casa felina (di quei gatti che neppure si immaginano un mondo senza il loro padrone), Ampurias si decide ad aprire la busta finalmente arrivata da Torino: «Coraggioso Serafino, fratello e figlio della vedova… Controlla che il sigillo sia intatto… No, questo Edouard Delessert non è un fratello. E’ un amico del regno e, prima di venire nella vostra isola, si è informato a Torino dei vostri usi, tutto qui… Quanto alla legge e alla protezione che da qua può arrivarti io, al tuo posto, sarei fiducioso. Tutto, tutto è con noi anche se pochi sanno di noi e di te. Ma ogni cosa va nella direzione che ci auguriamo. Tu non devi dimenticare che la legalità dei fratelli non è la legalità dei governi. Per i governi non c’è fraternità e le leggi non sono fatte per noi… sono fatte per uomini senza principi e senza morale.
«Da tutte le parti ci arrivano denari e tutte le logge sono diventate scrigni – grandi e piccoli – che non contengono solo oro ma anche la fatica e, qualche volta, il genio e l’astuzia che sono tesori quanto oro e diamanti. Io so che la tua è una piccola città abitata, mi hanno detto, da sonnambuli, fannulloni e paurosi. Ma anche una spelonca può essere il punto misterioso da dove, attraverso avvenimenti misteriosi che alla storia resteranno per sempre sconosciuti, inizia una vicenda grande e fortunata tanto che, poi, nella storia ci resta…».
La missione è «fare e fare e fare», conclude Arturo Giraudo Sertorio, il Maestro massone mittente. Al quale, sollecito, Serafino Ampurias risponde: «è stato necessario – da qualsiasi istante misterioso siano iniziati i fatti – compiere atti conseguenti che hanno cambiato la direzione delle cose che s’allontanavano da noi. Io ho osservato e nel silenzio della mia casa ho deciso… Azione e beneficio».
E’ questione di giorni, forse di ore. Qualcuno, in una notte di stelle, spara e ferisce alla spalla tale Tandino, carabiniere di mestiere, ed Efisio ne trae motivo per discuterne con suo padre Girolamo: «Voi lo sapete che la Curia teme i frammassoni e, siccome non li può perseguitare, qui a Cagliari si limita a spiarli. Non sono tanti, no… e sono inoffensivi… Ma non tutti sono innocui… lo sapete… Ascoltate, si sono riuniti qualche giorno prima della nostra esplorazione marina: credete che questo non significhi nulla? Venanzio lo sa, è informato… hanno un nuovo adepto, un nuovo fratello. Il carabiniere ferito è un segno che la loro anima è cattiva, un’anima solitaria, si sente controllata, spiata, in pericolo insomma…».
Ignoto il nuovo adepto… «i segreti sanno conservarli, loro. Però io mi son fatto un’idea», confida Efisio a suo padre, soggiungendo che qualcuno, alla Reale Udienza, manovra perché non ci si occupi della «questione Ampurias»: «Ha amici anche alla Reale Udienza e là tagliano le teste… C’è una stanza, si radunano, chiudono la porta, e decidono… Comandano in città».
La consorteria di Serra e la loggia di Scannerini
Nonnis no, lui non c’entra, «non è un assassino, lui fa il medico delle donne e presiede le riunioni. E’ Ampurias che ha trovato protezione per sé», ed è lui l’uomo da spiare. La «soluzione dell’enigma sulle occhiate» era nota a due o tre: oltre ad Efisio e a suo padre anche al marchese e forse (ma soltanto se ha spiato) la conosceva Sezzè, il segretario del Boyl, ma… «Nessuno di noi ha parlato con un uomo della loggia! Lo sai che non è possibile», sostiene convinto il vecchio Girolamo Marini.
Quel che si sa per certo è che Ampurias e Sezzè si sono visti, forse è lui l’adepto recente: lusingato dal tipografo, quel «mezzo-velluto» s’è fatto convincere «a entrare nella piccola loggia della città con chissà quali prospettive di gloria». E Ampurias avrebbe conosciuto la «soluzione del rebus» – il rebus delle occhiate e del tesoro marino – appunto dal «segretario infedele», affrettandosi quindi a razziare il mare e lasciare «lo scrigno vuoto».
Ma cos’è infine questa Massoneria, questa «setta segreta che ospita tra i suoi un uomo come Ampurias»? domanda retoricamente il vecchio Marini al suo figlio più intelligente che, conversando con lui, egli ha promosso così, da ragazzo ad adulto. «In città il disegno piemontese non interessa nessuno, qua non vogliono né guerre, né rivoluzioni: tutti si occupano solo della propria piccola vita… Ampurias è un fanatico e quindi un pazzo e quindi pericoloso, ma è isolato, un solitario…Ma a chi interessano qui i piani del re? Dovremmo versare il nostro sangue per gente che non ci vuole, che ci considera di un altro continente e di un’altra razza? Piemontesi pallidi…».
Efisio ascolta, capisce tutto e più di tutto, ed è lui a dire che Serafino Ampurias il tipografo è in procinto di partire per Genova, di certo senza il tesoro addosso, e andrà per trattare «con qualcuno della Grande Loggia… Avrà meriti e vantaggi e apparirà lindo e puro agli occhi del mondo». Poi, in realtà, a Genova non andrà, limitandosi a scrivere lettere su lettere e a nascondersi fra la tipografia di Castello e l’abitazione dei gatti alla Marina, o alla Pola che dir si voglia. Così fino al giorno in cui si decide ad apparire, sgradevolissimo fantasma, ad Efisio che, per difendersi dal «caldo di libeccio», se n’è andato con il mulo allo stagno, dov’è il canneto, e, intimorito, adesso lo tiene a distanza. Grida, Efisio, la sua verità, immaginando di parlare al mondo: «Ora, col tesoro, andrete da Zambeccari a Torino e quel denaro andrà alle logge da riordinare, è vero?… Il tribunale vi appoggia, appoggia voi che dovreste stare nella torre dei condannati! Certo non vi deve essere riuscito bene il mattone quando siete entrato in massoneria, gli angoli non dovevano essere proprio retti!».
Confessa tutto, allora, quell’«omicida senza faccia»: «Io combatto per una causa e questa città di commercianti giudei ce l’ho in odio. E’ come se qualcuno l’avesse addormentata. Tutti paurosi e superstiziosi… cose se ci fossero ancora gli spagnoli a punirli solo perché stanno in vita». Farebbe, fa eccezione, nel povero popolo, Efisio, e anche Serafino adesso gli dà l’attestato: «Il tuo cervello è libero e non è cotto dal sole… Ascolta: ho voluto incontrarti per ricordarti che c’è uno più acuto di te, più pronto di te a unire idee e azioni senza bisogno di comparire sui nostri giornaletti di provincia, e quello sono io: Serafino Ampurias! Modestia, Efisio Marini, impara la modestia…».
Gli ribatte il ragazzo ormai promosso adulto: «Ampurias, voi siete la malvagità senza origini e la morale naturale, che esiste anche tra gli animali, voi non sapete cosa è. Avete trovato il vostro Graal ma non siete puro… altro che cavaliere…».
S’accosterà al confessionale di padre Venanzio, Serafino Ampurias, non sarà però da penitente: alle accuse ricevute ribatterà elencando quelle della Santa Chiesa: «Torture leggendarie, ruote, corde, fruste…». E quando il vecchio scolopio addosserà alla «Storia» la responsabilità del sangue versato dai servitori di Domineddio, ma a lui in prima persona, a Serafino il tipografo aspirante Venerabile, la colpa della vita perduta di Jaccu, egli alzerà la sua voce come un invasato: «Io ho un obiettivo e il sangue è servito a perseguirlo. E ho giustiziato un fratricida, ricordatelo: un fratricida. Avete trovato sul vostro cammino un uomo caparbio e intelligente che non vuole ricchezza per sé. Già, vedete, la differenza con il vero delinquente sta qua. L’avidità e l’interesse rendono vulnerabili. Il disinteresse mi rende intoccabile… Io ho un cilicio per l’anima e quando sbaglio lo uso… so quanto fa male. A questo mio corpo non tengo poi tanto, ho il tesoro e sono felice».
Rischierà la lama sulla sua carne lo scolopio nel confessionale, andrà, o cadrà, per mani giustiziere il tipografo che aveva osato minacciarlo in quella grande chiesa sorella minore della torre pisana, ma sorella maggiore della regia universitaria dell’architetto Belgrano. Giustiziere finale – «gli ha ficcato una canna nella carotide» – si saprà un giorno esser stato l’anziano Giordi Bisesti, il padre di Jaccu ed il padre anche di Istèvini, uno dei tanti mendicanti analfabeti dimoranti in una tana persa in quel di Is Mirrionis. Sarà Reginaldo il maggiore Canelles a dirne a Efisio ormai in partenza per Pisa, dove studierà ancora e ancora per comprendere e amare sempre più i fossili cui rassomigliare i corpi dei morti. Gli dirà che del tesoro non c’è traccia da nessuna parte, ed allora sarà lì che proprio lui, proprio Efisio, ipotizzerà una nuova soluzione: «I simboli!… Io so che sono molto attenti ai simboli questi liberi muratori. Una cosa ne significa un’altra. Bisognerebbe pensarci bene a lungo…».
Aveva donato, il suo mentore, ad Efisio, quell’elenco degli incappucciati antichi, soci e prediletti delle confraternite, come per indirizzarne il fiuto mentale: pedagogo era stato per davvero quel padre scolopio, ed Efisio aveva compreso la lezione, rivelandosi degno di tanto maestro.
Un cenno di conclusione
Ritornano in vari passaggi del romanzo alcune radicate convinzioni dell’autore circa la massoneria come clan costituito attorno non a valori ma ad interessi, siano essi interessi minimi o siano, parrebbe (nell’opinione di Todde) con propensione maggiorata, interessi suscettivi di cambiare molto, gonfiando vanagloria e retorica autoreferenziale, nella calcolatrice dimensione dei singoli.
Si tratta di una lettura che è, a mio avviso, come anche sopra ho certificato, palesemente parziale e volta a non accreditare l’effettiva esistenza di costitutivi spazi ideali e, direi, di quei sentimenti civili che la miglior politica dovrebbe saper intercettare e valorizzare facendone per il vero “mattoni” di una società intimamente libera e giusta.
Gli è che questo nostro tempo, che dalle avvisaglie del pensiero debole, su cui tanto ci intrattenne il filosofo Vattimo ora sono già quarant’anni, si è fatto testimone di una sconfortante fluidità, quella avaloriale appunto che dà natura e misura alla cosiddetta società liquida, è entrato di forza, ma senza annegare tutti, oltre la porta d’Occidente delle logge, o di tante logge – davvero spererei non di tutte – indebolendo il largo set di quella cultura consapevolmente ecumenica che era stata cantata, a prova dell’altezza della sua personale esperienza coloniale attraversata da umanitarismo, da Rudyard Kipling e che in nulla contraddiceva, a saper andare a fondo delle cose, la passione nazionale e patriottica che si radicò in Europa e, secondo la linea della democrazia mazziniana e garibaldina, fiorì nelle logge italiane del tempo proprio di Efisio Marini. Che massone fu per certo.
Quella certa battuta presente nelle pagine di Todde, consegnata come un fondamentale a Serafino Ampurias (De Francesco il duellatore?) dal dignitario torinese d’obbedienza cavouriana – «Per i governi non c’è fraternità e le leggi non sono fatte per noi… sono fatte per uomini senza principi e senza morale» – nobile per la grazia che la sosteneva, è parsa sovente rovesciarsi negli ultimi tempi, quando le spade del conformismo hanno trafitto e buon senso e buon volere, costringendo questo e quello proprio a ricorrere, per il riconoscimento del diritto (e del giusto), alla legge chiamata profana. Una spia che soltanto l’indifferenza materializzatasi nelle coscienze fattesi neutre può misconoscere nella sua veracità.
Un cambio di natura, quello che risponde in pieno alla fluidità valoriale cui accennavo, è sembrato imporsi – a meno che non sia il cattivo sogno d’una notte tempestosa – nell’opera di distruzione in cui taluno non ha avareggiato, colpendo un patrimonio morale d’immensa sostanza e tre volte secolare. Ma, appunto, se non ci s’avvede di questo né di altro, L’occhiata letale resta soltanto un romanzo invece che, come a me sembrerebbe, un breviario per la personale e condivisa sofferta meditazione.
Castedhu no podet èssere su «Pantheon» (pagu bene sou!) de sos “Giani Bifronti piscadores”, ca za est portu de mare, ma chie piscat pische pro campare essit e istésiat (mancari no meda, cundennadu e presu sempre a fune curtza) e a piscare in su portu andhat bene solu a sos Giani.
A sos “piscadores nel torbido”, furbos a “fin di bene” (si s’ischiat cale e de chie) Castedhu/amministradores lis tiat pòdere fraigare unu “pantheon”, mancari interessendhe sos salvinistas miracularzos de sas òperas mannas (una de sa duzina de sas “meraviglie del mondo”).
E mancari, a su postu de su ‘casinu’ de sa “isola in Costituzione” e de sa “continuità territoriale” (chi est unu miràculu bellu e bonu, cun 180 chilómitros de abba de mare in mesu in sos duos puntos prus acurtzu tra s’Itàlia e sa Sardigna, duas terrighedhas ma “unite” a “unione perfetta” che mama e fiza ancora intro de sa bentre manna chi no anzat mai) tiant pòdere fàghere, e fintzas tutto insieme in vena de dare it’e fàghere, siat su PONTE sullo stretto di Messina e siat su PONTE sul largo di Civitavecchia.
E annúnghere in su prozetu de su pantheon unu postu salvinista.