Alla vigilia della santa ricorrenza del 25 aprile, 78° anniversario della liberazione dell’Italia dalla peste nazi-fascista, mi accingo a scrivere qualche riga sul volume, che considero necessario e prezioso, documentato e… ponderato, reso con scrittura chiara e godibile, e che ancora colloco su uno scenario non di storia remota ma, per tanti versi, di “attualità pulsante” ben degna di riflessione critica, direi inquieta e profondamente critica, I sardi a Salò, di Angelo Abis, uscito per i tipi del varesino Pietro Macchione Editore nell’ottobre dello scorso anno.
Data la mia estraneità al novero dei recensori professionali, mi consento discese nel testo e risalite secondo quanto mi sento, restituendo una affabulazione che spero non banale e anche senza abusivi voli pindarici.
Stretto dalle mie impellenze di coscienza civile che mi situano tutto intero dalla parte della democrazia repubblicana e azionista, e dunque della moralità antifascista, credo anche giusto premettere a quanto scriverò, di esplicito apprezzamento, intorno al libro, e sempre rinnovando convinta adesione alla scuola di alto pensiero che rimanda a Giuseppe Mazzini e Carlo Cattaneo, a Giorgio Asproni e Giovanni Battista Tuveri, alla fratellanza della Giovine Europa materializzatasi a Berna nel 1834 e alle istanze del manifesto di Ventotene dei terribili 1941-1943, la mia confessione patriottica come l’ho appresa, nella militanza politica e fin dalla adolescenza, da uomini come Giovanni Spadolini – che a me sedicenne presentò il liberalismo gobettiano e il risorgimento “senza eroi”–, come Ugo La Malfa padre della patria e, dopo di lui, come Carlo Azeglio Ciampi.
Chiamato dalle suggestioni dell’esempio di vita di (allora) giovani uomini cagliaritani come me, Silvio Mastio e Cesare Pintus, potrei e dovrei ad essi aggiungere anche, benché non abbia mai votato per il Partito Sardo d’Azione, Giovanni Battista Melis e Pietro Mastino e Gonario Pinna, personalità che insieme con Emilio Lussu, Francesco Fancello, Stefano Siglienti, Michele Saba e altri ancora mi hanno associato, educandomi nel tempo, al patriottismo unico e vero, quello che combina l’amore alla propria nazione all’umanesimo democratico che non conosce frontiere. Né dimentico e neppure taccio che erano giustamente chiamati “patrioti” i partigiani antifascisti e antinazisti, nella tragica ed esaltante stagione fra il 1943 ed il 1945, quando anche in Sardegna – territorio preservato allora, e dopo il macello dei bombardamenti delle fortezze volanti degli alleati, dalle crudeltà quotidiane della guerra – si raccoglievano i soccorsi per i combattenti e L’Unione Sarda e L’Isola (testate defascistizzate e affidate temporaneamente alla gestione commissariale dei CLN provinciali) davano conto, nominativamente, degli oblatori.
Il patriottismo
Debbo tutto questo, che non asciugherà lo spazio riservato alle riflessioni sul libro che mi sono impegnato (da me stesso) a presentare, perché in tempi che vanno troppo per sbrigativi e impropri riassunti, facendo grigio, per convenienza e pigrizia, e il bianco e il nero che meritano invece apprezzamenti diversi, mi parrebbe onesto evitare ogni rischio di equivoca interpretazione, magari magari… intruppando anche me, biografo di mazziniani e azionisti, nei vagoni degli opportunisti paggi dei nuovi signori (tornati) al comando dell’Italia cento anni dopo la marcia su Roma.
Fatto chiaro ciò, a conforto della mia coscienza e per rispetto all’occasionale lettore, vengo al libro di Abis che si propone come riflettore, per lo specifico contributo sardo, puntato su un campo che solo ad evocarlo e tanto più ad esplorarlo desta in molti ancora comprensibili inquietudini, trattandosi di un campo che fu contermine e complice, per perversione propria ed in una scellerata e convergente avventura storica, di quello burgundo che incenerì milioni di creature innocenti nei forni di Germania e Polonia e seminò morte e distruzione nell’intero continente. Né potrebbe accogliersi acriticamente, come di tanto in tanto si sente dire essere ormai consegnato alla storia, un capitolo, al meglio neutro (e in fondo sentito virtuoso) della vita nazionale, bisognoso di farsi franco da letture di parte. Gli anni della seconda guerra mondiale, con tutto quello che ci è entrato dentro, sono tempo ancora troppo caldo della nostra contemporaneità che pur va per velocità impensate, sono tempo vissuto da molti ancora dei nostri familiari e amici più anziani e anche di marcato perdurante condizionamento della formazione di tanti che nell’immediato dopoguerra sono nati e hanno frequentato la scuola ed i luoghi sociali allora in progressiva ricostruzione morale oltreché materiale. Dunque mi pare scontato e inevitabile che una materia ancora calda, pur se non più incandescente, si esponga a considerazioni non pienamente serene e distaccate: a considerazioni impossibili ad essere pienamente serene e distaccate, se non a costo di zittire la coscienza e la morale.
Nella distanza che mi separa da lui, e per quanto lo conosca attraverso le centinaia di pagine raccolte e pagine sparse da lui firmate, ho molto rispetto di Angelo Abis, non soltanto della sua dirittura personale ma proprio anche della sua libera franchezza di studioso che le proprie tesi le espone mai tacendo, con un linguaggio che da solo gli fa onore, i limiti e gli errori (e anche gli orrori) della parte che sente sua. La sua onestà di indagatore della storia è, mi sembra, in un dichiarato riscontro del chiaroscuro che s’appalesa in quel settore, ideale e temporale, della storia novecentesca italiana, al quale riconnette molto della propria esperienza civile e politica.
Il libro giunge ultimo in quanto offerta al pubblico, ma spero non ultimo, conclusivo cioè, nella sua produzione. Lo ripeto: Abis è un autore che merita stima e riconoscenza per la fatica che si è volontariamente caricato sulle spalle da molti anni in qua. Dico la fatica di coprire un vuoto nella ricostruzione, documentaria e testimoniale, delle esperienze culturali e politiche della destra sarda, né, invero, soltanto relative agli anni della dittatura ed a quelli tremendi della guerra, ma anche del dopo. Intendo specificamente dar riguardo a quel tessuto di concertazioni fra minoranze estreme uscite sconfitte dagli esiti bellici e tese a difendere e rilanciare, nel nuovo ambiente costituzionale della Repubblica, idealità di radice nazionalista e social-corporativa. Mi riferisco in particolare allo studio (condiviso con Giuseppe Serra, autore anch’egli di gran valore) sulle Origini del Movimento Sociale Italiano in Sardegna – 1943-1949, com’è intitolato un bel volume apparso nel 2016, di seguito a quell’altro, che ben poteva costituirne la premessa tematica (ed uscito nel 2013), dal titolo Il Fascismo Clandestino e l’Epurazione in Sardegna, 1943-1946.
Pare giusto, a questo punto, ricordare ancora – perché recente, del 2021 – “SUD-EST “– Rivista Culturale del GUF di Cagliari tra Sardismo e Fascismo, curato pure esso con Giuseppe Serra, e del quale mi sono occupato, con molto interesse, e da esso molto apprendendo, in un lungo articolo apparso nella piattaforma Giornalia.com il 22 febbraio 2022. Un testo rivelatore delle progressive sedimentazioni valoriali (o disvaloriali) della dittatura negli animi di una certa gioventù che via via andava proponendosi come nuova classe dirigente dell’Italia, chi distinguendosi nella politica, chi nell’accademia o nella scuola, chi nella economia e nell’imprenditoria: di quell’Italia che, brandendo l’inevitabile retorica del nazionalismo scatenatosi nella prima stagione postbellica (e che reagiva alla supposta “vittoria mutilata”), intendeva chiudere ogni partita con l’ “Italietta” giolittiana (e anche notabilare) e chiamare la “patria” ad augusti destini imperiali.
Ad Angelo Abis molto deve la rivista culturale (e di dibattito politico) Excalibur, giunta ormai al suo 151° numero e al 25° anno di vita (su carta “povera” prima, on line dopo), e che, da qualche tempo, sta assai utilmente e gradualmente riproponendosi in “storiche” annate rilegate che consentono un ordinato e documentato ripasso di tante posizioni espresse dal gruppo promotore e redazionale nel più recente quarto di secolo, così in politica interna, istituzionale e di ordine pubblico, ed estera o di difesa come in politica economica e sociale sulle più varie materie, dalla scuola alla sanità, dalle comunicazioni al turismo ecc.
È molto importante, a mio avviso, il contributo via via offerto da tale rivista della destra cagliaritana – tanto più ora che anche il sindaco del capoluogo appartiene alla sua famiglia politica (epigono dei Tredici, Endrich ecc., galantuomini ma per vent’anni imperdonabili gerarchi di una imperdonabile dittatura) – al civile confronto delle idee, e con esso, per il fatto in sé, mi pare degno di merito l’impegnativo e tenace, insistente sforzo della resa pubblica di tali produzioni: ché la democrazia si alimenta di dialettica, di incontri e scontri, di posizioni variamente argomentate e di sintesi, quando possibile – e spesse volte è possibile -, in vista approdi di larga e giustificata condivisione.
Ancora qualche riflessione in premessa
Non credo di essere il giudice più competente, ma non taccio la convinzione che, come per certi aspetti era capitato alla sinistra di derivazione classista e marxista (che pur aveva maturato, in sedi comunali e provinciali, una lunga pratica di governo, ancor più affinatasi dal 1970, dopo l’avvio delle esperienze legislativo-amministrative regionali), la destra abbia acquisito – o dovuto acquisire ob torto collo, dunque dovuto ingoiare – rettifiche importanti e anche radicali in talune sue impostazioni palesemente eccentriche (per non dire contrarie e perfino rovinose degli interessi nazionali), grazie alla chiamata, per voto popolare, a funzioni di guida non soltanto di enti locali e regioni ma dello Stato stesso. I proclami di piazza trasferiti nelle stanze delle istituzioni hanno dovuto, per forza di cose, perdere la loro carica tronfia e aggressiva, non elegante, ma tutto ha dovuto farsi, da parte della destra, in Parlamento e nel ministero, ancora scontando il peso della bassa qualità politica della sua dirigenza (in essa comprendendo, alla prova dei fatti, uno sfacciato e incredibile nepotismo o familismo), già dimostrata a suo tempo nelle prove rese dall’amministrazione regionale del Lazio presieduta dall’on. Storace o da quella municipale romana dell’on. Alemanno, o ancora da quella dell’Autonomia siciliana in mano in ultimo all’on. Musumeci).
Se undici italiani su cento hanno votato, nel 2022, per la destra della fiamma tricolore erede del Movimento Sociale Italiano significa che nessun altro ha saputo aggregare di più e nel gioco del relativo la maggior minoranza ha vinto il diritto di governare e fare le leggi per il bene di tutti (e farsi perdonare così, nel concreto – si vedrà – quel prolungato e dissennato consenso alla legislazione ad personam che essa ha prestato dimenticando remote diritture, o dichiarate diritture).
Sotto un certo e non secondario profilo, lo sforzo di adattamento alle superiori ragioni nazionali (e statali) compiuto, o compiendo, dalla destra è stato ancor più radicale ed intenso, data la ruvida estraneità del paniere parafascista dalla complessa (e pur esaltante) esperienza elaborativa della costituzione repubblicana. E chiunque studi la storia della nostra Repubblica nei primi decenni in cui essa, accompagnando e anche superando l’affanno della ricostruzione, andò strutturandosi gradualmente per raggiungere standard (economici e civili) compatibili con lo scenario continentale ed occidentale, sa di cosa si tratti: si pensi soltanto all’antiamericanismo tradizionale di quella sponda, al voto contrario alla Alleanza Atlantica nel 1949 (e quanto si faticò, nel tempo, a superare certe pregiudiziali ideologiche!), al consenso evidentemente soltanto tattico ai trattati di Roma del 1957 (ma dopo l’opposizione – speculare a quella del gaullismo in frenesie di grandeur – alla CED, cioè alla politica di difesa europea)… Si pensi ancora, in tempi recentissimi, all’avversione alla legislazione divorzista (incredibile!), si pensi alle prurigini anti-euro e anti-UE di cui ci si è fatto vanto ancora in epoca recentissima, alle esaltazioni – che non erano soltanto cedimento obbligato alla realpolitik, come invece in altri casi – del putinismo in quanto tale, al consenso-complice dei giudizi berlusconiani a pro di un dittatore vicino come Lukashenko, o al favore indirizzato ad uomini come Trump e Bolsonaro eletti ai vertici nientemeno che di USA e di Brasile, e in generale alle convergenze cosiddette sovraniste senza capo né coda con certe democrazie dettesi “non liberali” nell’est continentale postcomunista…
Con una classe dirigente (e anche parlamentare) penosamente scadente – il pensiero corre dritto al Donzelli intervistato da mille testate e ascoltato con voce eccitata e rauca a Montecitorio, nel residuale inconsapevole sprezzo delle sacre istituzioni – e con un set di slogan giocondi e scemenze assolute come il “blocco navale” nel Mediterraneo, le banali coperture di gruppi marzial-farneticanti, ecc. il partito della presente destra italiana (che bestemmia nella sua insegna alludendo al nome santo di Goffredo Mameli martire della Repubblica romana) è ancora troppo lontano, a mio avviso, dagli accessi alla cultura critica cui soltanto il liberalismo (con le sue derivazioni) può educare ed è drammaticamente incapace di penetrare le complessità. Ciò nonostante, ho detto rilevando l’evidenza, essa è stata chiamata dalla maggiore minoranza degli italiani elettori a governare le istituzioni pubbliche e promuovere l’interesse generale.
Lo voglio dire con altre parole e sempre per trovare ragioni di riflessione nel ponte fra ieri e oggi, come mi suggerisce il libro di Abis. Sgrammaticata su campi centrali in cui si giocano gli interessi nazionali – ai quali mi sentirei di aggiungere il conclusivo singulto no-vax alla don Ferrante al tempo della pandemia Covid –, la destra chiamata ora a impegnative funzioni di governo deve continuamente rettificare se stessa anche ammettendo, e lo deve fare! di non essere giunta a nozze neppure così vergine dalle “compromissioni” con il vituperato potere in esercizio plutocratico.
Deve ricordarsi: tanto un terzo dei giudici costituzionali eletti dal Parlamento fin dal 1955 ha dato spazio alle minoranze della rappresentanza, quanto il Consiglio superiore della magistratura – altro organo costituzionale – ha avuto, per la parte elettiva ad opera delle due Camere, la sua quota di prescelti (anche sardi) nelle aree della destra. Senza tacere – e qui è soltanto un affaccio quasi casuale alle minime cose cui non si pensa mai – che l’attuale ministro della cultura, pontefice della nazional-dottrina, era fino a pochi mesi fa, e già da diversi anni, direttore del TG2 della RAI televisione di Stato e prima, per un decennio, era stato vicedirettore del TG1 che si diceva in mano ai sinistri…
Questa è la destra d’oggi obbligata agli stiramenti e chiamata a tanto (come già nel 1994, ventinove anni fa e per più legislature) in coalizione con il mercantilismo pagano di forza italia (quella delle leggi ad personam e dello strame istituzionale) tutta al minuscolo e la demagogia volgarissima della Lega passata – con la spregiudicatezza stessa condivisa dai sardisti rovesciati di oggi, già nazionalitari-indipendentisti – dal padanismo delle ampolle del dio Po e della patria a fette, con ministeri a Monza e macroregioni nel territorio, il greve reiterato insulto al meridione e al tricolore relegato al cesso, a posizioni pannazionali in un misto di esasperazioni liberiste e dirigiste di infimo livello.
A tutto questo accenno, soltanto piluccando dalla mia memoria già quasi perduta e per smentire la vulgata di un “nuovismo” virtuoso del tutto inesistente, e ancora neppure tacendo dei ruoli-chiave assessoriali che anche da noi, anche al vertice dell’Autonomia speciale sarda sono stati affidati nel tempo, e non con speciali encomi, a uomini della destra (l’on. Italo Masala fu presidente addirittura due decenni fa), così come successivamente, agli stessi, sono state assegnate presidenze ora di questo ora di quell’ente regionale un tempo definito “sottogoverno partitocratico”…
Salò, la stagione bella (la stagione bella?)
Da mazziniano azionista consegnato alla testimonianza ideale e soltanto a quella, non ho potuto rinunciare ad una franca rappresentazione… diacronica del personalissimo giudizio sulla destra italiana di avant’ieri e di ieri, per avvertire quanto riconosca sia difficile – impresa forse impossibile – oggi per essa, chiamata a ruoli diversi da quelli praticati nella piazza degli strilli e delle dichiarazioni di solidale intesa col peggio dello sciovinismo continentale a partire da Francia e Spagna, rivelarsi, con tutta sincerità, diversa da quel che il suo dna le concede. Perché la questione del fascismo-regime imperiale e guerrafondaio, del fascismo totalitario e carcerario, del fascismo che manifesta ancora sgradevoli e fastidiose reviviscenze pur (si spera) organicamente estranee al corpo in confusa modellazione di Fratelli d’Italia, è questione che entra in pieno nel dibattito e dialoga anche con le liturgie della Repubblica democratica e costituzionale: tutte le liturgie, a partire da quella del 25 aprile, cui è speculare la memoria del dramma della Repubblica di Salò, e non può non esserlo anche quella della strage immonda delle foibe. (Ho invitato nei giorni scorsi il presidente dell’associazione intitolata alla magna figura di Cesare Pintus, mazziniano sempre, imprigionato, seviziato e portato a morte prematura dalla dittatura, di promuovere il prossimo anno, proprio nella ricorrenza del 25 aprile, un convegno di ricordo storico e di testimonianza civile sugli inenarrabili delitti prima nazi-fascisti poi comunisti consumati in territorio jugoslavo, e confinario giuliano e dalmata fra il 1943 ed il 1945; degli italiani infoibati dagli slavi nel 1945 ho letto che i sardi fossero 28; altri sardi erano finiti l’anno prima alle Fosse Ardeatine. Tragedia nostra che rifiuta con sdegno ogni tifoseria da stadio).
In 250 pagine molto curate e arricchite da una sezione documentaria-fotografica e da agili schede nominative, Angelo Abis presenta dunque la stagione di Salò e le figure dei suoi protagonisti nostri conterranei. Non li fa eroi questi protagonisti, li racconta – come anche è comprensibile – con il cuore ammirato per i talenti civili o culturali o artistici dei singoli, per le personali virtù di chi fu coinvolto in quelle vicende. Né questo dovrebbe contrariare alcuno per il fatto in sé, perché mi pare ben legittimo riconoscere anche nell’avversario i meriti dimostrati e, in diversi casi, perfino l’eccellenza che sfida il tempo. Lo aveva già fatto, Angelo Abis – debbo necessariamente richiamare i precedenti – tre lustri fa con il volume L’ultima frontiera dell’onore. I sardi a Salò, pubblicato, con la bella e competente prefazione di Giuseppe Parlato, dalla sassarese Doramarkus che costituisce l’ampia matrice della nuova edizione.
Rispetto al volume del 2009, questo nuovo presenta una ampia introduzione dell’autore, assente in quell’ormai remoto “tentativo pionieristico” ed ora impostasi sia per inquadrare, ampliandola, la “galleria” dei personaggi biografati sia per meglio delineare le “motivazioni” ed il “carattere peculiare” che è dato scorgere nei repubblichini sardi perché sardi. Impresa, questa, di estremo interesse, tanto che si convenga con le conclusioni del saggio quanto che queste si contestino.
Meriterà tornare sul punto. E intanto però occorre esaminare l’impianto dell’opera (che sostanzialmente riprende lo schema del volume-matrice): cinque sono i capitoli riferiti specificamente ai “politici”, ai “piloti”, ai “comandanti militari”, alle “formazioni militari” (con la cultura e le manifestazioni della “propaganda”), agli “intellettuali, artisti e poeti” presenti nella popolazione aderente al… sogno (o all’incubo) dell’estremo Mussolini.
Le schede biografiche riguardano una trentina di personalità che sono apparse emergere sopra i grandi numeri dei corpi civili e militari associati attorno alla sigla della “R.S.I.” in diretta (e scellerata) dipendenza burgunda. Eccoli i nomi: Francesco Maria Barracu, Edgardo Sulis, Ugo Manunta, Emanuele Rosas, Felice Figus, Vittorio Satta, Bruno Riva, Antonio Gaviano, Enrico Adami Rossi, Guido Alimonda, Giovanni Biggio, Giovanni Cabras, Mario d’Atri, Raffaele Delogu, Leonardo Faedda, Bartolomeo Fronteddu, Giovannino Lonzu, Marcello Mereu, Giuseppe Orrù, Achille Manso, Pasca Piredda, Giuseppe Porcu, Emilio Princivalle, Ennio Roich, Lorenzo Siddi, Gioacchino Solinas, Ugo Pasella, Giulio Fenu, Lorenzo Del Piano, Giuseppe Biasi, Cipriano Efisio Oppo, Paolo Orano, Gaetano Pattarozzi, Ennio Porrino, Stanis Ruinas, Mario Baffico. Unica donna, nella folla, l’ “ausiliaria non vedente” (romana figlia di logudoresi di Pattada) Giovanna Deidda. Né mancano i religiosi: segnatamente don Antonio (non Angelo, se non sono io a sbagliare) Maria Ledda, planargese di Sindia, don Giovanni Antonio Ciceri, gallurese di Tempio Pausania, padre Luciano Usai, campidanese di San Gavino Monreale.
A tale ultimo riguardo vale almeno menzionare le due edizioni di un bel lavoro biografico dedicato proprio al saveriano fattosi cappellano dei guastatori salodiani (o dilli saloini), edizioni uscite rispettivamente nel 1993 e nel 2008 a firma di Michelangelo Sanna. Titoli: Luciano Usai missionario Cappellano dei guastatori e Padre Usai. Un crocifisso nelle sabbie del deserto. Il primo dei due titoli è citato anche da Abis nel contesto della scheda da lui approntata, e personalmente affrontato in una mia lettura ormai molto datata (un quarto di secolo! ché il lavoro uscì mentre ero impegnato a pubblicare la serie dei volumi sul sardoAzionismo, cioè sul fronte della democrazia antifascista di radice risorgimentale e repubblicana cui non fu estranea qualche personalità del clero minore, come già con Garibaldi lo fu don Verità e con la Repubblica romana lo era stato il barnabita Ugo Bassi destinato alla fucilazione: esso mi valse – nei necessari… contrappunti delle idealità civili e patriottiche – per interrogarmi sui possibili intimi e spirituali percorsi di un religioso datosi combattente per una causa che, oggi anno 2023, diremmo la stessa per la quale si spendono il patriarca Kirill ed i suoi diaconi al fianco di Vladimir Putin).
L’assistenza religiosa (quanto davvero evangelica?) prestata dal clero diocesano o regolare ha trovato, nella più ampia bibliografia consultabile nell’OPAC, diversi titoli e fra essi richiamerei il romanzo di Nino Nonnis La vita altrove ed il saggio di Lorenzo Di Biase (esponente dell’ANPPIA) Cappellani militari sardi a Salò al servizio della Repubblica Sociale, uscito nel volume n. 1 del 2011 di Ammentu, bollettino storico, archivistico e consolare del Mediterraneo promosso dal mio amico Martino Contu.
Bibliografia, memoriali
Di Ugo Manunta, cagliaritano collaboratore del Popolo d’Italia e per lungo tempo ai vertici della stampa nazionale (fino ad arrivare al Corriere della Sera e a La Sera, promotore di studi e iniziative tanto sul fronte sportivo quanto su quello sindacale e… perdonato, o riciclato, in tempo di Repubblica – ottima la scheda dedicatagli da Maddalena Carli nel Dizionario Biografico degli Italiani Treccani) –, ci dà partitamente conto Abis richiamando il suo socialismo fascista e specialmente le sue pagine de La caduta degli Angeli. Così anche di Stanis Ruinas (Giovanni Antonio De Rosas), anima inquietissima e comunque fascinosa dei suoi estremismi anticapitalistici, a cui si deve – uscito in contemporanea con l’avvio dei lavori della Assemblea Costituente, nel 1946, ma poi più volte ristampato, lo sfizioso titolo di Pioggia sulla Repubblica (da intendersi Sociale Italiana): “Se al nord si recarono fior di canaglie e avventurieri, è pur vero che ci andarono italiani degni di rispetto che fecero di tutto per salvare il salvabile del Paese… Io, da uomo libero, non voglio parlar male né lodare nessuno, ma dire semplicemente ciò che ho visto… Ero stato fascista anche se non dei primi; avevo combattuto e sofferto per il fascismo. Gli intransigenti e gli ortodossi mi avevano fatto pagare a colpi di fame e di umiliazione la mia fede in un fascismo che certamente non era il loro…”.
Da Manunta e Ruinas ci sono giunte testimonianze dirette e anche interpretazioni sapienti, naturalmente nella loro partigianeria o eccentricità, delle vicende della Repubblica disperata. Si tratta di tesori autentici, a mio avviso, che ben possono situarsi nel folto panorama della saggistica riguardante specificamente la storia della RSI e più in generale la cosiddetta “guerra civile” che nel biennio 1943-1945 insanguinò in un “di più” la nostra patria continentale.
È un peccato però che Abis non abbia arricchito il suo libro, magari in una sezione speciale, anche di una bibliografia “tutta sarda”, intendo del commento ai titoli di diversi memoriali (taluno è comunque richiamato nelle note alle singole schede) che nel tempo hanno avuto la fortuna e anche il merito di affacciarsi nelle librerie neppure soltanto isolane. Fra essi ricordo sempre La mia avventura ad Ivrea, di Mario Giglio – mio amico indimenticato e già direttore generale della Banca Popolare di Sassari oltreché alto dignitario del Grande Oriente d’Italia. Un libro che egli confezionò negli ultimi tribolati anni della sua vita, impedito quasi del tutto nei movimenti, ma pure assistito da una intelligenza sveglia e dalla volontà perfino commovente di spingere due dita sulla tastiera del computer. Un libro anche corredato da numerose immagini, soprattutto quelle tratte dai giornalini e dai manifesti che quei giovani – erano poco più che ventenni in quel particolare corpo militare – approntavano per darsi forza e anche per lo scherzo, necessario scherzo cameratesco.
Ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare, e anche di essere buon amico – ricorderei, fra le persone più note, il caro e sempre compianto onestissimo e tollerante professore Lorenzo Del Piano –, di una decina almeno di reduci sardi (o sardizzati) della RSI, ovviamente tutti di una generazione (e talvolta due generazioni) più grandi di me: nel nuovo contesto della costituzione democratica conquistata dopo la liberazione del territorio nazionale dagli occupanti, taluno aveva rimeditato con profondo spirito autocritico la passata esperienza, e generale e personale, finalmente collocandosi nelle militanze, più o meno impegnate, del liberalismo o del gradualismo socialista, talaltro aveva confermato, ma con spirito placato, un’appartenenza ideale che faticava a negare però le opportunità che, sole, la democrazia e le alleanze internazionali del campo occidentale offrivano alla patria.
Soltanto sulle carte potei incontrarmi con Giovanni Lonzu, deceduto ottuagenario nel 1973, e autore di svariati libri sulla prima guerra mondiale, che egli combatté da giovanissimo ufficiale, nonché di diversi articoli usciti sulla stampa quotidiana regionale, e intendo sia La Nuova Sardegna che L’Unione Sarda. Il che mi porta anche a chiosare che quell’ospitalità nelle pagine del giornale di Terrapieno gliela offerse quel direttore Fabio Maria Crivelli il quale, costretto all’indomani dell’armistizio, a scegliere fra l’adesione alla Repubblica di Salò ed i campi di prigionia di Germania e Polonia, scelse – ventiduenne istriano! – i campi, e ne attraversò ben dodici, e in essi, con ogni umiliazione subita e gli svuotamenti della fame quotidiana, sofferse anche di un’arma da fuoco puntata sulla tempia. Visse anche lui, dico Lonzu, negli anni della pace ritrovata o riconquistata, l’esperienza della politica come consigliere regionale missino, e anche come massone, nella loggia cagliaritana AALLAAMM intitolata al Cavour. Personalità portatrice di una esemplare rettitudine, rispettata da tutti, anche dagli avversari.
Se manca una ricognizione organica, fra le edizioni risapute o l’impaginato di un giornale periodico, dei memoriali sardi riguardanti l’esperienza salodiana (saloina) e, fra gli inediti ancor più numerosi, dei memoriali che non possono non esserci, taluno forse ancora nella forma manoscritta ed in un confino domestico, non importa, talaltro affidato ad una dispensa per un’utile condivisione nella circostanza di qualche incontro reducistico, magari a qualche santa messa di pietoso suffragio – va detto che I sardi a Salò ci dona, arricchita rispetto all’offerta di L’ultima frontiera dell’onore, una sezione fotografica di straordinario interesse e preziosa. E ci consegna anche, riclassificata rispetto ad una precedente elaborazione, la lista dei caduti – pur dimezzata a confronto di quella originaria dei 548 nomi -, segnalati individualmente (se possibile anche con gli estremi anagrafici), per ruolo nel reparto attrezzato e per luogo di sconfitta, o chiamala gloria, fra 1944 e 1945. Così, questo e quello, in un giorno qualsiasi del biennio nero, nello stesso giorno in cui forse il fumo d’ebrei e di disabili, di zingari e di omosessuali, usciva dai forni dei campi dei complici, o chiamali alleati, tedeschi.
Mi parrebbe importante, e anzi necessario oltreché importante, un pur rapido viaggio fra le biografie dalle quali risale e risalta, per la verità della cosa e per la bella penna dello scrittore, l’umanità dei molti attori sulla scena della tragedia collettiva vissuta: l’umanità di chi, illudendosi forse di una fine gloriosa, non si sentì di lasciare incompleta una esperienza politica, o bellico-politica, cui magari le guerre d’Africa (e anche di Spagna) degli anni ’30 e le sparse campagne – a cominciare da quella greca – di quell’inizio del conflitto apertosi per l’Italia con la dichiarazione di odio consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e Francia, avevano infuso suggestioni d’irrealtà.
Il sardofascismo ed i numeri dell’affollamento
In accompagno all’abbrivio di questo viaggio… fra le storie personali credo giusto dare spazio al centro della “ricostruzione sentimentale” della partecipazione isolana, o di isolani, alla Repubblica mussoliniana che Abis colloca, in linea con una interpretazione della quale più volte egli si è fatto esponente, in un cosiddetto “sardo-fascismo”. Un sardismo che sarebbe stato ribadito in forme diverse – ma che soltanto in parte a me pare davvero riscontrabile nei fatti – lungo l’intero ventennio, per approdare ancora, e quasi sublimarsi fra le benedizioni delle supreme gerarchie, a Salò.
I sardi, ad avviso dell’autore, “marcarono la loro presenza a Salò in maniera del tutto originale e, per certi versi, anche opposta rispetto a quanto espresso da altre comunità regionali”. Tale disposizione sarebbe derivata dall’incontro realizzatosi appunto nei primi anni ’20, e nelle larghe plaghe delle province di Cagliari e Sassari, tra fascismo e sardismo: un incontro che – protagonista la borghesia o la piccola borghesia (naturalmente con il supporto popolare rurale) – si sarebbe materializzato nella concretezza della petizione di “riscatto economico e sociale del tutto interclassista, venato di un nazionalismo etnico dialetticamente contrapposto allo stato nazionale”. E la camicia nera sovrapposta a quella grigia dei primi lussiani avrebbe favorito, non sfavorito, l’udienza ottenuta dalla Sardegna presso il ministero romano, a partire dal famoso miliardo.
Vent’anni dopo, nei ranghi dell’alta burocrazia o in quelli dell’esercito armato, la componente sarda avrebbe, non soltanto confermato l’imprinting regionalista delle origini ma anche dimostrato come questo lo affrancava di fatto da ogni soggezione alla prepotenza dei complici – pur complici – tedeschi. Mostrarono la schiena dritta – scrive press’a poco Abis – il generale Solinas ed il capitano Manso, il generale Princivalle ed il colonnello Porcu: sì destituiti dai loro gradi, ma non umiliati nella dignità personale.
Edgardo Sulis, già avversario di un podestà di poca sostanza nel suo paese, arrivò a dar vita ad un partito ostile a quello ufficiale del regime disperato. E anche Stanis Ruinas – firma di tanti libri – vagheggiò percorsi autonomi, d’intesa fra “le anime popolari e rivoluzionarie sia della resistenza che del fascismo” figlie entrambe dei radicamenti antichi e parimenti rispettabili.
Sorprende? non sorprende? Abis scorge nella prevalenza dei sardi salodiani (saloini) la coscienza critica, ruvidamente critica, del ventennio. La dittatura del duumvirato Duce-Savoia sarebbe stata da essi avvertita e giudicata conservatrice oltreché autoritaria, l’avrebbero voluta rovesciata e cioè se illiberale l’avrebbero voluta liberale e pluralista, ampiamente sociale, insomma avrebbero desiderato una dittatura non dittatura, un regime magari autonomista in logica di regionalismo, con sfere di autogoverno. Giorgio Asproni e Giovanni Battista Tuveri in panni novecenteschi? e compatibili con i savoiardi del fortilizio del Quirinale? Credibile?
Abis risponde di sì, o propende per il sì. Per lui le parole di Barracu sarebbero chiare e dai discorsi del “sergente maggiore senza sale in zucca” (secondo la definizione di Farinacci) e “bestia energica e coraggiosa, appuntato di scuderia” (secondo il giudizio di Luigi Bolla, segretario del vice ministro degli esteri salodiano-saloino rilanciato in carriera dalla Repubblica nostra, quella democratica postbellica, fino ai gradi di ambasciatore ed ispettore generale del ministero!), da quei discorsi – tre ne riporta diligentemente l’autore – emerge chiara l’aspettativa o l’utopia: “La Sardegna avrà, in base al nuovo ordinamento, l’autonomia necessaria che la sua configurazione, la sua posizione geografica e il suo passato, le hanno dato il diritto di sognare e di avere”.
Insiste su questa linea interpretativa “sardista” Angelo Abis, e offrendoci le pezze d’appoggio, gli argomenti documentati cioè della sua esegesi, ci offre di fatto elementi di conoscenza che noi tutti, esperti e non esperti della storia nazionale, dovremmo accostare comunque con rispetto, mente libera e addirittura, se così si vuole, soddisfazione. Ovviamente senza mai arrivare ad inserire proposizioni di discorsi ed interventi di un complesso fare in un quadro che da abietto si riconfiguri campione di purezza democratica.
La tesi dell’autore non manca di suggestioni ed egli le concentra nelle poche ma dense pagine della introduzione al suo libro che sto cercando di assimilare per confrontarle con altre e più correnti letture del periodo. Egli spiega: “Non erano rari i casi dove sardi fascisti avessero buoni rapporti o frequentassero sardi partigiani o antifascisti. Questo perché al sardo era ostico il concetto di guerra civile. Non essendo la Sardegna neppure sfiorata dalla rivoluzione francese e dalla seguente avventura napoleonica, non concepiva come gli uomini potessero odiare e uccidere in nome di valori astratti quali quelli della politica o delle ideologie. Da qui anche una valutazione più pragmatica e realista del fenomeno della resistenza”.
Rifà i conti dimensionali, Abis, del coinvolgimento isolano nella finale avventura mussoliniana: dice di 60 o 70mila sotto le armi, in parte rinchiusi nei campi di concentramento alleati e russi in mezzo mondo – fra essi io mi permetto sempre di ricordare il caro amico e maestro mio Antonio Romagnino, raccolto dalle battaglie perdute in nordAfrica (Libia-Tunisia-Algeria) e trasferito nel Missouri, preso in consegna dai colored a New York e, fra i prisoners of war, invitato a farsi collaborazionista, rieducato-educatore nella massa dei suoi vecchi commilitoni chiamati alla stessa sorte: riscoprendo Croce, scoprendo il Toqueville e la democrazia delle associazioni, rimuovendo definitivamente i fantasmi cattivi maestri del ventennio bevuto come un dolce veleno. E quando tornerà in Italia, nel 1945, non più monarchico ma repubblicano, starà con Cocco Ortu (lui resistente monarchico e crociano) e con i liberali moderati, con loro e con i più del suo movimento reducista (che successivamente invece vorranno costituirsi in partito, nel partito del MSI).
Furono circa diecimila i sardi della RSI, che a questa potrebbero considerarsi “organici”. Eccoli i numeri riesposti dall’autore: 20mila gli isolani (in una massa di oltre 600mila) “catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre”, 40 o 50mila (in una massa superiore al milione di unità) quelli “sbandati nei territori occupati dai tedeschi”.
Rileva la significatività di quella incidenza regionale nelle schiere giocate e giostrate nel nord del paese, là soprattutto. Rileva (e se ne trae motivo di speciale riflessione) l’abbondanza di presenze derivate dal mondo dell’arte e della letteratura, anche se concluderne che Porrino e Biasi – indubbie eccellenze della creatività italiana e sarda – fossero “il più grande musicista e il più grande pittore del secolo” appare un cedimento sentimentale, un accredito ai limiti della tifoseria, anche perché manca, nel caso, alcun parametro valutativo.
Ma va oltre, Abis, nella sua conta. Egli articola e misura la” militanza armata” di provenienza isolana derivandola da una matrice di 50 o 60mila presenze distribuite nella penisola o in altri territori europei alla data della firma dell’armistizio e dunque del rovesciamento delle alleanze da parte del governo affidato dal re fuggiasco al maresciallo Badoglio: “… qualche migliaio – soprattutto quelli inquadrati nella Milizia – seguì la sorte dei propri reparti che si schierarono immediatamente con i tedeschi. Una buona metà finì nei campi di concentramento tedeschi; dei rimanenti si può calcolare che almeno 10.000 si presentarono alle neo-costituite autorità repubblicane. Alcune centinaia abbandonarono poi i campi tedeschi per arruolarsi nei battaglioni delle SS. italiane e nelle 4 divisioni italiane (Italia, Littorio, Monterosa e San Marco) che furono costituite e addestrate in Germania. A questi occorre aggiungere moltissimi volontari, soprattutto studenti che stavano nelle scuole, nei collegi e nelle università del continente, e, infine, vi fu pure una sparuta pattuglia di giovanissimi che avevano lasciato la Sardegna al seguito dei tedeschi in ritirata. I volontari si arruolarono prevalentemente nei reparti della X Mas del comandante Valerio Borghese. In totale si può valutare l’apporto dei sardi alle forze armate repubblicane a circa un 2% su un tutale di circa 500.000 uomini”.
Il passaggio ulteriore è – al di là dei capitoli biografici e della rassegna fotografica di complemento – ai caduti. Lo fa, Abis, con lo scrupolo del documentarista, pur ammettendo che mancano rilevazioni attendibili e complessive e di dettaglio, possibili forse soltanto in limitati territori (come in Friuli). Quanto egli ci restituisce rappresenta comunque in modo significativo il doloroso spettacolo del sangue di guerra che schizza, impietoso, nei territori e nel calendario. E ad esso m’accosto, con fare d’umanità, sempre però tenendo in mano il libro della storia che non fa uguali, né lo potrebbe, gli oppressori e i liberatori.
Come un mesto Spoon river
A possedere talento di poeta, dallo scorrere tali pagine ultime del libro con tutti quei dettagli del parziale conosciuto potrebbe trarsi ispirazione per un canto del cuore: dettagli che rimandano, per ciascun nome, ad età e a sepolture, a corpi militari o a condizioni civili, a stati professionali e a circostanze del sacrificio: capitano, caporale, impiccato, legione, maresciallo, ospedale militare, prelevato, senza tomba?, volontario…
Li scorri quei nomi, li ho scorsi, partendo dagli Addis e Agus e arrivando ai Tatti, agli Uras, agli Zito, quello ventenne di Bortigiadas, l’altro ventiduenne di Mores, l’altro ancora ventitreenne di San Teodoro, passando con l’occhio fra le caselle dei loro nomi come con le gambe fra i vialetti di un cimitero, e mestamente registrando come nessuna lettera dell’alfabeto manchi all’appello, quale che sia la classificazione. Non si fa cinica, non potrebbe mostrarsi tale e non lo potrebbe, per sua natura, neppure essere di fatto, … perché sarebbe allora volgarmente ritorsiva e screditante la propria dignità umanistica, la coscienza antifascista che, convocata dal corretto servizio documentario reso dal Nostro, indugiasse fra quelle memorie.
Converge con questa riflessione quanto lo stesso autore scrive in una certa pagina del suo libro: “I sardi di Salò sono carne della nostra carne, storia della nostra storia, non più, ma neanche meno, dei sardi che in quel travagliato periodo avevano fatto scelte differenti se non opposte”.
Ogni vita è un assoluto ed io mi pianto in questo valore indiscusso. Altro, va ripetuto, è e sarà il giudizio sulla causa per la quale quelle vite hanno combattuto e a loro volta, forse, hanno colpito altre vite che per una causa giusta, diversamente da loro, si sono sacrificate. È stato un dibattito che s’è affacciato, tempo fa – suscitato mi pare dall’allora presidente della Camera il post-comunista Luciano Violante –, sulla scena pubblica e politica, questo del “pari onore” da rendere a tutti i caduti. Io credo che la cosiddetta “pacificazione”, ad oltre sette decenni da quelle vicende, sia cosa da mettere sul tappeto: e credo però che l’unica via per raggiungere l’obiettivo sia quella di riconoscere esplicitamente, con trasparenza e piena onestà intellettuale, da parte della destra, dei singoli e dei tutti, che il ciclo storico del fascismo con la sua appendice repubblichina complice di Hitler e dell’abominio antisemitico, del fascismo-regime dopo che del fascismo-movimento e del fascismo-ideologia, è stato intrinsecamente malvagio, perché Cesare Pintus il mazziniano non poteva, non poteva, non poteva dover raccogliere, come pena per la sua ansia di libertà, la tubercolosi dalle carceri segreganti e avviarsi prematuramente alla tomba, sì lui che credeva alla libertà di tutti e alla giustizia per tutti…
Certamente la storia bella come una favola non è cosa di umani, ma fra il ministro Cocco Ortu e ed il ras Farinacci, fra Giolitti e Mussolini, fra il governo di Zanardelli o di Bonomi e quello della dittatura v’è uno scarto clamoroso di cifra valoriale, non di tonalità cromatica. La monarchia e il trono di Vittorio Emanuele III hanno secondato la grande prigione che pur ha inglobato per lunghi anni ampio consenso popolare, e parroci e vescovi, i comandi stessi della Santa (?) Sede hanno partecipato anch’essi al consenso conformista convinto e a quello opportunista, e poco o niente hanno avuto da condividere con la testimonianza di don Giovanni Minzoni o del nostro canonico Francesco Doranti, il tempiese che aveva onorato il lascito antitemporalista di Tommaso Muzzetto vicario capitolare che un alto prezzo pagò in proprio alla prepotenza teocratica, e antistorica, di Pio IX…
È soltanto la costituzione repubblicana – la costituzione italiana! –, dalla cui elaborazione la destra oggi al governo dell’Italia è stata estranea, a potersi rendere tavolo di conciliazione. La superiorità ideale e civile è di chi ha parlato di Europa e di nesso nazione-umanità cento anni prima che tali principi s’affermassero nei trattati, ed ha parlato profeticamente di suffragio universale, di costituente, di repubblica e di autonomie territoriali, di chi s’è battuto lungo i decenni perché un tale patrimonio etico-civile e politico fosse consacrato per davvero, come infine è stato, negli alti codici dello Stato. È superiorità morale e ideale di chi ha sconfitto, nello scorcio del secolo passato, il comunismo – che pur nell’antifascismo nazionale s’era distinto anche con eroismo (ma avrebbe stolidamente continuato ad ubbidire a Stalin e ai suoi successori ancora per quarant’anni) – come aveva sconfitto l’indecenza di certo nazionalismo non meno antistorico del socialismo realizzato.
Riconoscere con parole chiare e leali che la costituzione è figlia del riscatto nazionale dall’abominia del fascismo sarebbe per chi, in nome di quella costituzione oggi governa l’Italia e anche le istituzioni parlamentari, un fattore di emancipazione virtuosa della quale neppure si intuisce pienamente – così mi sembra – la portata.
I sardi a Salò
Il libro di Abis conduce, con penna educata, all’esplorazione di personalità complesse che hanno avuto spazi – talvolta in prima fila – e tempi di protagonismo indubbiamente rimarchevoli. Darne conto qui nel dettaglio non aggiungerebbe forse nulla alla bella ricognizione operata dall’autore e anche toglierebbe il gusto della lettura che le pagine di I sardi a Salò meritano tutte quante.
Soltanto per offrire qualche spunto all’approccio curioso (e rispettoso) delle virtuali lapidi di Spoon river sardo-saloino, vorrei peraltro riferirmi ad alcune delle schede che fra le più, per diverse ragioni, mi hanno toccato. A quella di Francesco Maria Barracu, prima fra tutte, e perché, se è lecito dirlo, di famiglia amica fra Santulussurgiu e Bonarcado nel Montiferru: Abis raccoglie con diligenza le citazioni che del suo nome sono presenti nelle pagine di almeno dieci autori, valorizzandone, insieme con l’abilità gestionale degli alti livelli di responsabilità assunti nel gotha delle gerarchie più prossime al duce e nella permanente fiducia di questi, un certo fiero coraggio mostrato anche nella scena ultima della sua esecuzione: “Sono una medaglia d’oro, ho il diritto di essere fucilato al petto”. Non accontentato, colpito alla schiena e appeso poi alla sinistra del duce del fascismo-regime e del fascismo-rivoluzione, a piazzale Loreto, in raccapriccio, a testa in giù. Alla sua figura ha dato molto del suo Giovanni Fiora, che diversi altri studi sul fascismo locale ha prodotto nel tempo, in un libro (Barracu, l’ultimo gerarca) pubblicato a Sassari, dall’Associazione Storica Sassarese, una dozzina d’anni fa.
Non meno documentate, supportate cioè da numerosi rimandi ad opere generali sulla storia repubblichina, sono le pagine dedicate a Edgardo Sulis e ad Ugo Manunta, cui più sopra ho fatto riferimento anch’io e fra loro accomunati dalle attività giornalistico-letterarie. Del primo mi pare di rilevare, nell’accosto che ne fa Abis, il profilo del gerarca eterodosso, gerarca-antigerarchi, del fiduciario del duce che mette le vesti del “divulgatore di prese di posizione di tipo ideologico e politico che Mussolini non intende assumere in prima persona, ma che vorrebbe diffuse nell’opinione pubblica” e arriva ad essere autorizzato a pubblicare un giornale organo del neocostituito Gruppo Rivoluzionario Repubblicano ispirato alla formula movimentista “Italia, Repubblica, Socializzazione”. Del secondo, al di là della eclettica carriera sviluppata nelle collaborazioni o nella direzione di questa o quella testata, e al di là anche del suo sindacal-socialismo che tanta fatica ad affermarsi mostrava nel giro triste dei capi tutti in dark, mi sembra di rilievo quanto ha a che fare con i tentativi da lui, o anche da lui esperiti di contatti con esponenti della resistenza (in specie delle brigate Matteotti di marchio socialista). Ciò con l’obiettivo di concordare una tregua politica se non ancora di definire un accordo, cui difficilmente – invero da entrambe le parti – si sarebbe potuto giungere date le distanze di schieramento anche internazionale fra il blocco RSI-Terzo Reich e quello resistenza antifascista-alleati angloamericani (né soltanto angloamericani). Fu, aggiungo questo rilevandolo espressamente da Abis, un indirizzo che Manunta non abbandonò neppure a guerra conclusa, allorché, da esponente missino, volle insistentemente interloquire con il PCI (stalinista) di Palmiro Togliatti e Luigi Longo.
Particolarmente ampio il quadro biografico di Emanuele Rosas, del quale ha scritto Alessandro Ragatzu – prolifico ed elegante, magnifico studioso e divulgatore, cui si debbono bellissimi libri anche fotografici della storia regionale – nel volume Un Diavolo Rosso sardo della Rsi. Le memorie e i documenti del tenente Emanuele Rosas pilota sassarese, dai Caproncini della Runa ai Messerschmitt Me 109 dell’Anr.
Fu volontario di guerra, 19enne, allora studente di ingegneria, Emanuele, e fu combattente anche suo padre, in terra d’Africa, in età che era già matura e chiuse lì, in una prigionia americana del 1945, la sua esistenza. Pistoia e Udine, Foligno e Gorizia…– Gorizia umiliata dalla bandiera slava “issata sulla fontana di Piazza della Vittoria” – si susseguono nelle vicende di Emanuele pilota combattente. Molte, molte pagine di vita e di guerra scorrono come fotogrammi di un film nel dramma eccitato, generoso e forse presuntuoso di Emanuele che s’è arruolato nell’Aeronautica Nazionale Repubblicana: un filo di coerenza ideale e patriottico sembra legare tutto in lui, è per l’Italia o per l’idea di Italia che il padre gli ha trasmesso, non pare avvertire alcuna speciale attrazione per gli alleati burgundi. Gli è stata affidata la missione di contrastare l’aviazione del nemico (il nemico che – dirà la storia – … salverà l’Italia!) e non mancano i successi. Ma i morti si contano, non potrebbe essere diversamente, anche nella sua flottiglia, morti su entrambi i fronti e nell’unico cielo. Avrà sempre, ancora in vecchiaia, nella sua Sassari, l’orgoglio della propria partecipazione “patriottica” alla guerra delittuosamente scatenata da Hitler e scempiamente secondata da Mussolini, e si negherà due volte alla firma del personale stato di servizio quando rileverà che gli è stato omesso il biennio della sua avventura nel nord padano.
Non insisto nei focus che darebbero elementi, oltreché di conoscenza, anche di umana simpatia – sì, così oso esprimermi anche dal mio fronte antifascista – ai molti partecipanti. Lo studio di Angelo Abis merita una lettura libera e distesa, attenta e direi cordiale – proprio in senso etimologico – ai suoi contenuti: nelle quasi 250 pagine servite anche da una grafica molto sobria ed ordinata, zampillano i racconti di vita e di morte e fiottano i sentimenti e gli ideali, gli ardimenti e gli azzardi e anche le contraddizioni, i cattivi calcoli, le sconfitte, la rabbia, l’umano insomma.
Ciascuno può trovare, nella lunga galleria, il suo personaggio, quella figura – direi quella persona – che possa maggiormente intrigarlo nella propria confessione, pur se mediata dallo storico che l’ha raccolta e ricomposta. Gli uomini dell’università o dell’arte potrebbero insistere a leggere e rileggere le pagine dedicate ad Ennio Porrino, che fortunatamente in tempi recenti ha goduto di nuovi biografi, così come, e anche di più, Giuseppe Biasi, per andare dall’arte musicale a quella pittorica; così ecco il Pattarozzi futurista – lo abbiamo studiato associandolo a Marinetti anche nelle sue venute sarde degli anni ’20 e ’30 – e con lui anche l’Oppo, futurista pure lui e nazionalista, uomo di pennello e d’insegnamento nella Venezia della Biennale… Metterei nel conto, anche se ispido, Paolo Orano, combattutissimo deputato del primo sardismo, sociologo o antropologo discusso e perfino odiato già dal 1919, uno dell’intellighenzia di regime, divenuto perfino preside di facoltà e rettore in quel di Perugia, e dopo senatore del Regno… Il mio amico garbatissimo e affettuoso Lorenzo Del Piano, docente di storia contemporanea nella nostra vecchia facoltà di Lettere e già giornalista collaboratore del Quotidiano Sardo di monsignor Lepori, e altresì funzionario regionale, autore di innumerevoli studi sulla storia sarda della rivolta angioiana e dell’Otto-Novecento, taluno perfino pionieristico (storia del giornalismo, storia del movimento cattolico, ecc.).
Gio.Maria Angioy ripensato in camicia nera
Ho accennato adesso a qualcuna soltanto delle figure la cui memoria ha trovato giusto risalto nell’accosto, misurato e positivo, di Abis. Non vorrei però negare almeno un cenno anche alla trattazione, che trova utile e lungo sviluppo nelle pagine de I sardi a Salò, della propaganda salodiana-saloina, ed in specie dell’esperienza del battaglione volontari di Sardegna intitolato nientemeno che a Gio.Maria Angioy (nome anch’esso – così come fu rivolto alle migliori istanze libertarie nella Sardegna di fine Settecento – che invero nessuna parentela ideale potrebbe confondere con il fascismo violento dell’alleanza con il fuhrer tedesco).
Un bis, in chiave fascista, della Brigata Sassari? La suggestione può avere qualche consistenza anche se difficilmente potrebbe essere raccolta dagli spiriti liberali che mai e poi mai avrebbero potuto coinvolgersi nella trama repubblichina dopo che in quella del ventennale duumvirato. Padre Usai ed i quattro mori – c’erano stati dei preti con i rivoluzionari antifeudali e angioyani, e c’erano stati dei preti d’animo autonomistico, prossimo ai sardisti della prim’ora, nel combattentismo degli anni 1919-1920… Mi pare che anche Bellieni ne abbia scritto. Anche qui ritorna, con il ministro della chiesa che dice messa e confessa, il drappo orgoglioso dei quattro mori.
Il religioso saveriano raggiunge Capranica, nel Viterbese, e qui apre una nuova pagina della sua vita e della sua missione. Arrivano da ogni dove, ed è lui a riceverli, i sardi sbandati dopo l’8 settembre, sono migliaia, con loro anche il colonnello Fronteddu mutilato di guerra, inviato da Barracu per organizzare le forze in vista di nuove battaglie. In mille – fra settembre ed ottobre del 1943 – scelgono la guerra, ancora la guerra, non optano per le alternative chissà se più rassicuranti circa il proprio domani: il lavoro nelle fabbriche tedesche o quello nelle fabbriche di Lombardia, Veneto e Piemonte. Nasce il Battaglione Volontari di Sardegna intitolato all’Angioy. Un mese alla Lugara nella capitale, qualcuno diserta e viene passato per le armi, qualcun altro finirà nel marzo successivo alle Fosse Ardeatine.
Il passaggio al nord avviene all’inizio del 1944: in Friuli Venezia Giulia, in Istria. Fronteddu viene ucciso dai gappisti del Partito d’Azione e il suo posto è preso dal capitano Achille Manso. Altri militari disertano, passano con i partigiani della Garibaldi di radice comunista. Nel gruppo dei cinquanta e più è l’orgolese Luigi Podda, ventenne, pastore, nome di battaglia “Corvo” nelle imprese della resistenza antifascista. Salvato, in un rovescio, dalla fucilazione, si farà coinvolgere, in altra successiva stagione di vita, in un’impresa banditesca barbaricina…
Storia di qualche mese, poi il battaglione si scioglierà disperdendo i suoi effettivi in altre formazioni, e fra esse è il XIV confinario, costiero da fortezza, di stanza a Fiume “che avrà cura di tutelare lo spirito e le tradizioni sarde del piccolo reparto”. Sono duecento i sardi che s’aggiungono agli altrettanti costituenti lo “zoccolo duro” di quel corpo militare.
Numerose sono le testimonianze scritte di quelli che i sardi dell’Angioy, o della ex Angioy rifluiti nel XIV, li hanno conosciuti da vicino o ci han convissuto, e Abis ne dà diffuso conto facendoci entrare nel vivo di contingenze estreme, disperate e gridate fra le mitragliatrici pesanti ed i mortai all’opera… Ed in quel novero ecco altre diserzioni, e l’autore, richiamando nuove testimonianze, fa i nomi di chi rimane e di chi se ne va: Deiana, Coccone, Piras, Cadeddu…
Qualcosa della Sardegna, dunque, s’agita sul continente, ma poi quell’agitazione rimbalza, né forse potrebbe essere diversamente, nell’Isola dove la guerra sembrava finita con il completamento dell’atroce piano-bombardamenti su città e paesi e con l’evacuazione dei tedeschi. Perché ci sono poi i paracadutisti addestrati a Milano ed in Germania che vengono incaricati dalla RSI di azioni di spionaggio e sabotaggio sul nostro territorio: Pischedda, Corongiu, Cotza, Mastio, Castia, Manca, Marchi… piovono dal cielo i repubblichini che sono però tutti o quasi catturati e imprigionati in quel d’Oristano. Pischedda – tenente medico ghilarzese – tenta la fuga ed è abbattuto dal fuoco dei carabinieri. La Sardegna, che già è stata raggiunta dai messaggi di propaganda diffusi dall’EIAR, da Radio Tevere, da Radio Salò partecipa così, anche così, alla “guerra civile” che civile non è.
Edgardo Sulis – origini in Villanovatulo, 41 anni nel 1944 – dirige l’ufficio propaganda per le province occupate in obbedienza agli indirizzi della presidenza del Consiglio (ma quale presidenza del Consiglio?). E fra coloro che più s’impegnano a “catechizzare” i sardi con i messaggi ed i volantini inutili perché velleitari (e dunque penosamente imbroglioni) sono alcuni cappellani militari. Francesco Maria Barracu, che si fa apostolo dell’impossibile, dicendo dei romani e dei giudicali e non risparmiandosi stavolta il giudizio sui Savoia rielabora nella sua predicazione vari millenni di storia sarda: “ora o camerati, o frades, dobbiamo ammettere che la mala sorte ha deviato gli istinti dei nostri padri che non seguirono, fino alla fine, l’idea repubblicana di Giovanni Maria Angioy…”. La prefigurazione di un ordinamento autonomistico è come un sogno, purtroppo un sogno confezionato dentro un incubo, quello della guerra. Ché se era guerra anche quella del 1915-18 che giustamente, da parte dell’interventismo democratico, veniva anche chiamata “quarta dell’indipendenza nazionale” – perché i territori irredenti e Trento e Trieste, la Trento di Cesare Battisti e la Trieste di Guglielmo Oberdan rivendicavano la loro appartenenza allo stato, dopo che alla nazione italiana, e tutto era volto a nuovi equilibri in chiave di nazionalità e insieme di libera democrazia, contro l’autocrazia imperiale di Austria e Prussia – che cosa potevano prospettare o promettere i salodiani-saloini? Una fraternità marziale con il Terzo Reich, nuovi giardini dov’erano i lager ed i forni, una democrazia rappresentativa e una piena libertà civile dopo che per vent’anni altro era stato inflitto alla patria?
Concludendo
Mi sono accostato al libro di Angelo Abis, lo ripeto, con interesse, con gusto, con ammirazione per l’autore e la sua onestà documentaria. Ne ho scritto non come ne avrebbe scritto un dotto recensore professionale, non è mestiere mio. Ne ho scritto forse affabulando, mischiando l’ieri e l’oggi in scambievoli richiami dei tempi storici che pur paiono tanto diversi e rispondono invece a comune fonte.
Alla vigilia del 25 aprile, di una ricorrenza che per la 78.a volta sarà celebrata con grande solennità (e qualche inevitabile retorica) in ogni comune d’Italia, ma che vorrei esprimesse i suoi migliori contenuti in un appropriato riversamento pedagogico a pro dei ragazzi delle nostre scuole, e in un tempo nel quale uomini e donne della destra – della destra figlia di una estraneità ai valori profondi della costituzione repubblicana – sono chiamati a reggere le maggiori istituzioni e del legislativo e dell’esecutivo, il mio pensiero torna a Cesare Pintus, sindaco di Cagliari in quel giorno del 1945 – fu lui a disbattezzare la piazza Carlo Sanna intitolandola ad Antonio Gramsci… Torna ai miei fratelli e padri e madri dell’azionismo mazziniano (e non importa quanto sia stato e sia oggi, fra l’imperante conformismo o la superficialità qualunquista, minoritario), torna a Fancello, a Rossi e a Bauer, a Parri e a La Malfa, a Siglienti e ad Ines Berlinguer, a Bastianina Martini Musu e a Lussu, anche a Titino Melis – cui Cagliari non ha ancora intitolato neppure un vicoletto! mentre più che un vicoletto ha intitolato ai gerarchi neri… e naturalmente a quei sardisti come Anselmo Contu o come Dino Giacobbe o come Pietro Mastino e Luigi Oggiano che certo non saprebbero darsi ragione di come possa azzardarsi a dirsi della loro stessa scuola di pensiero e di testimonianza democratica, nell’anno del Signore 2023, l’attuale presidente della Regione sarda.
Le pagine di Angelo Abis ci consegnano storie di uomini che stavano dalla parte sbagliata della storia e della morale: generosi sì, forse, i più, e capaci di sacrificio e anche di eroismo, con il fermo senso dell’onore e con l’orgoglio d’una appartenenza, fieri di quanto era entrato in loro già nella prima età, o magari in un’adolescenza precocemente perduta fra incerti vagheggiamenti e sublimazioni in esperienze che avevano ignorato, e forse rifuggito, negli anni ’20 e ’30 (quelli con conclusione di leggi razziali), la santità civile della libertà, tanto più la libertà di pensiero e parola di quelli avvertiti lontani da sé. Erano vittime di cattivi maestri i giovani ventenni mandati a morire sui fronti disperati di una guerra sbagliata, giovani formatisi o deformatisi negli anni della dittatura, privati fin dal primo giorno dell’ossigeno di quel ragionar critico che, solo, può costruire una civiltà.
Proprio perché vittime sarebbe doveroso non escluderli, i caduti e i reduci, da una riflessione pietosa. Io li ricomprendo, tutti, dal primo all’ultimo, in una considerazione che al rispetto della loro umanità somma una compassione per quanto a loro la sorte, nella febbre di un tempo cattivo, ha negato di godere: le armonie di una patria che s’esalta nell’affermazione dei talenti morali dei singoli confortati e nutriti da un sentimento comunitario. Che sì, puoi chiamare nazionale, aggiungendo al primo aggettivo un secondo: democratico. Come Giuseppe Mazzini c’insegnò.
Sig. Franco. Non mi fraintenda. Quando parlo di delitto passionale mi riferisco a Bartolomeo Fronteddu e non certo a Busonera. Conosco benissimo la versione dell’Anpi. Ciò che non mi convince è che l’ uccisione di Fronteddu non venne attribuita al Gap di Giustizia e Libertà di Padova, ma venne da questo rivendicata.
Poichè ritengo i Gap la struttura più seria e anche più efficace della Resistenza, mi sembra alquanto strano che abbiano rivendicato l’eliminazione di un nemico che, tra l’altro era l’ex comandante del Btg. “G.M. Angioy”, osannato persino dalla rivista tedesca Signal che ne aveva pubblicato la foto in prima pagina, senza averlo fatto essi stessi. Se poi non ricordo male nella ricostruzione del 2012 si dice anche che alcuni di quei sicari fascisti figurano in una lapide di caduti partigiani.
https://www.anpi-vicenza.it/anpi-padova-78-anniversario-della-rappresaglia-nazifascista-del-17-agosto-1944/
Caro Sig. Abis
Il prefetto Menna decise di impiccare il Dr.Busonera assieme ad altri 2 partigiani con altri 7 fatti fucilare (1:10) per rappresaglia per un omicidio attribuito ma non effettuato dai gappisti. In quel momento non vi fu alcuna indagine accurata ma solo una ricostruzione di comodo.
Di “passionale” secondo come lei intende nella morte del Dr.Busonera non vi è nulla, se non la passione del suo impegno antifascista.
In merito alla ricostruzione dei fatti la invito a contattare l’Anpi Padovana
Un cordiale saluto
Al sig. Franco, conosco la versione secondo cui il dott. Busonera sarebbe stato ucciso da sicari fascisti per una faida di tipo passionale. Questa tesi è però relativamente recente: risale al 2012, data successiva alla pubblicazione della prima edizione dei Sardi a Salò che risale al 2009. Prima di quella data, in tutti i siti della resistenza l’uccisione di Fronteddu viene attribuita al Gap di Giustizia e Libertà di Padova, cosa credo sia avvenuta anche subito dopo l’uccisione di Fronteddu. Dell’uccisione del dott. Busonera parla anche lo storico Claudio Pavone nella sua opera “Una guerra civile” , a pag. 475
, ma la colloca nella logica terribile e spietata della rappresaglia fatta dai fascisti. Per onestà intellettuale devo dirle che non ho elementi ne pro ne contro per esprimermi sulla tesi del delitto per una questione passionale. Però, ad occhio, mi sembra una tesi alquanto contorta e alquanto farraginosa che tra l’altro sminuisce anche il sacrificio di Busonera: una cosa essere ucciso perchè il nemico ti ritiene uno pericoloso e quindi un valoroso, altra cosa è perdere la vita per loschi motivi passionali.
Fra i sardi di Salò merita un ricordo anche il generale Gioacchino Solinas bonorvese che l’8 settembre del 1943 (comandante della divisione granatieri di sardegna) difese Roma e aderì a Salò. Fu per diverso tempo comandante della piazza di Milano e aiuto migliaia di soldati sbandati e civili italiani a scappare in Svizzera per evitare i campi dì concentramento. Fu traferito ad altro incarico e dopo la guerra per una decina di anni subì un processo per tradimento da cui fu poi assolto con formula piena.
Caro Professore
Fra gli “incroci” Sardi le segnalo che il tenente colonnello Bartolomeo Fronteddu non fu ucciso a Padova dai gappisti ma da sicari armati da un nazista per questioni passionali, e che, per rappresaglia, fu impiccato per questo il Dr Flavio Busonera, Medico e antifascista di Oristano, amatissimo nella bassa padovana; un sordido Prefetto, che non pagò mai le sue colpe, approfittò di questo delitto per massacrare 10 Italiani detenuti a vario titolo, fra cui anche il Dr., Busonera cui è dedicata la sede attuale dello IOV (Istituto Oncologico Veneto).
Penso che ricordare il Dr. Busonera sia un dovere nella ricorrenza del 25 Aprile, e con lui ricordare anche il Colonnello Fronteddu, Dorgalese Repubblichino, di cui pur non condividendo le idee, ho comunque rispetto per la coerenza che mostrò in vita.
Una Storia sarda che forse meriterebbe essere raccontata per esteso