In questi giorni il Partito dei Sardi sta leggendo e rileggendo da un lato i conti della sanità, che non ci piacciono, e dall’altro la cosiddetta rete ospedaliera, che ci piace ancora meno. C’è chi si fa prendere dallo sconforto e invoca il cielo («Madonna santa!»), chi si affida all’onomatopea esclamativa («cesss!»), ma quelli di Sassari ‘incredibilmente’ dicono frequentemente: «cazzo».
Oggi, di sabato, per fare una lettura leggera ma utile, è forse opportuno dedicarsi all’emancipazione del linguaggio politico e civile dall’uso promiscuo di ogni parolaccia, ma con particolare riguardo all’interiezione fallica di cui sopra.
È pur vero che a Sassari il termine non ha alcuna accezione volgare, essendo banalmente un’interpunzione o un’interiezione, ma c’è da riflettere sul fatto che esso sia nei primi mille posti delle parole più ricorrenti in italiano e che, quindi, non appartenga alla rappresentazione linguistica di una sorta di antropologia turritana, bensì si radichi profondamente nella tradizione italiana.
La linguistica certificherebbe, per l’appunto, che gli italiani sono un popolo o di inguaribili simbolisti fallici (e personalmente non mi ci trovo neanche un po’) o di inguaribili incazzati (e non mi ci trovo ugualmente).
L’aver ripreso a fare la vita che mi piace, quella sorta di vita monastica che accompagna la vita universitaria, ha acuito un fastidio verso me stesso: anch’io uso troppo le parolacce.
Il turpiloquio è sempre esistito, ma oggi è stucchevole, è una forma di conformismo, non rappresenta più un attimo di ira (anche Leopardi diceva e scriveva parolacce, come ci aveva ricordato a lezione un vecchio professore universitario nel giorno della sua pensione citando un pensiero del grandissimo poeta utile a dissuadere dagli studi umanistici: «Studiare e lavorare sono cose che ho dimenticate e dalle quali divengo alieno ogni giorno più. Con questa razza di giudizio e di critica che si trova oggi in Italia, coglione chi si affatica a pensare e a scrivere», Lettera ad Antonio Papadopoli, Pisa, Febbraio 1828), insomma, è un modo snob dei colti di ingaglioffirsi per sembrare più popolari.
Questa truffa sociale del turpiloquio è evidente nella letteratura di consumo.
Si pensi all’esordio di Come Dio comanda, premio Strega 2007, che in poche righe scascetta (come dicono a Sassari): «Svegliati! Svegliati, cazzo!». Cristiano Zena aprì la bocca e si aggrappò al materasso come se sotto ai piedi gli si fosse spalancata una voragine. Una mano gli strinse la gola. «Svegliati! Lo sai che devi dormire con un occhio solo. È nel sonno che t’inculano». Qui incontriamo un altro must del lessico politico: non si dice più ‘sconfiggere’, ‘fregare’, ‘battere’, no, si usa l’immagine più amata dall’immaginario erotico di Camilleri per rappresentare una sconfitta politica inflitta o subita da qualcuno. In questi giorni in tanti vengono in facoltà a dirmi che tizio o caio mi i…………..eranno, e se il tempo verbale futuro mi tranquillizza sulla possibilità che mi rimane di impedire il realizzarsi di un così infausto progetto a mio danno, dall’altra la cosa mi infastidisce perché trovo l’espressione inutilmente volgare, violenta. Secondo un vecchio studio del 2003 nella televisione italiana si sentiva una parolaccia ogni 21 minuti; secondo me oggi la media è sotto i dieci minuti.
Circondato e afflitto da questi pensieri, da queste minacce e da questo lessico, mi ritrovo poi in compagnia di una vecchia epidemia che ha il potere di farmi saltare i nervi: il dilagare del ‘cioè’.
Non c’è niente da fare, l’italiano svuota di significato tutto ciò che nasce per rendere chiare le cose.
‘Cioè’ anticamente era diviso in ‘ciò’ ed ‘è’ ed aveva proprio la funzione di esplicitare un fatto, di manifestarne la sua forma e natura. Oggi è un marcatore di riformulazione della frase, spesso sostituito dall’altro invasore dei colloqui italiani, ‘voglio dire’. Siamo più o meno al ‘diciamo’ di D’Alema. C’era nel Parlamento sardo, negli anni scorsi, un consigliere che usava il ‘diciamo’ con una frequenza parossistica; un giorno, un altro consigliere sassarese, dotato di spirito e di intelligenza, gli contò i ‘diciamo’ pronunciati in una dichiarazione di voto di 3 minuti, come pure i ‘cioè’: 20 ‘diciamo’ e 15 ‘cioè’ e nonostante tutti questi sforzi di esplicitazione, nessuno capì nulla di ciò che voleva dire.
Noi dobbiamo ingentilire il nostro modo di parlare, non renderlo più neutro e insignificante, ma più chiaro, più netto e allo stesso tempo più cortese.
Se nel Sessantotto dire una parolaccia era un gesto eversivo rispetto a un mondo borghese ritenuto ipocrita (cioè imbellettato all’esterno e marcio all’interno), oggi un linguaggio volgare è solo tragico e povero conformismo e lo è ancor più se oltre all’interiezione sassarese si usano i ‘cioè’ che non hanno mai chiarito niente a nessuno né risolto qualcosa: Don Abbondio quando incontra i bravi dice “cioè” e non per questo fu più o meno chiaro che aveva una paura da matti.
Comment on “Le parolacce e i ‘cioè’ ci circondano. Per una guerra di liberazione dal conformismo linguistico”
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Aggiungerei il ricorso agli “attributi”, i “santissimi”, ma ormai sempre più direttamente le “palle”: è tutto un tirar fuori le palle, far vedere se le abbiamo, palle rotte, gonfie, in orbita…
La cosa più strana – direi anche assurda – è che questo machismo sta diventando un leitmotiv delle donne. Per mia esperienza, anche in politica, le donne sono più coraggiose degli uomini. Insomma, il loro coraggio è dovuto proprio al fatto che “le palle” non le hanno!
Ma prima che qualcun@ si metta a dire che bisogna tirar fuori le trombe di falloppio, consiglierei a tutti e a tutte di parlare semplicemente di CORAGGIO (che deriva da “cor/cordis”: cuore) o di BALENTIA, ma quella vera (connessa al “valore” dell’intelligenza, dell’etica e dell’abilità di una persona).
PS: per respingere l’attentato al diritto alla salute dei sardi ci vuole coraggio e balentia, qualità che spero non manchino a nessuno dei nostri consiglieri (che purtroppo sono tutti maschi…) ;-)