di Paolo Maninchedda
Non sono pochi quelli che ritengono che la politica sia e debba essere immune da sentimenti, amicizie e affinità personali.
Io non sono tra questi.
Non vi è una sola attività sociale che possa prescindere dalla fiducia, la quale scatta non solo per motivi razionali, ma anche per ragioni affettive, perché si ‘sente’ che l’interlocutore è in buona fede, che è una brava persona, che non ti vuole colpire, che ha a cuore i tuoi stessi obiettivi generali, che ti riconosce e ti apprezza come interlocutore, che è consapevole del bene che riceve da quanti danno più del dovuto.
All’interno di questo perimetro ci stanno anche tutte le dialettiche su problemi specifici che la realtà può proporre. Fuori da questo perimetro sta la bassa insinuazione, la maldicenza, l’attacco tanto più gratuito quanto più disinformato, l’odio di potere.
Personalmente ho da tempo assunto una regola: non litigo né polemizzo con chi scivola nei bassifondi dell’invidia e dell’odio. Un tempo pensavo che occorresse contrastarli, oggi penso che debbano cuocere nel loro brodo. Ovviamente fino ad una certa soglia, oltre la quale non polemizzo, ma denuncio. Sto passando settimane difficili proprio per l’autodisciplina che mi sono dato e tutto sta accadendo non per funzioni strettamente connesse al mio incarico, ma per quelle aggiuntive che esercito per conto di altre istituzioni. Poi ci sono anche quelli che mi attribuiscono posizioni contrarie, ma proprio diametralemnte opposte, a quelle di cui sono convinto e che sono agli atti. Siamo alla follia contumeliante. Ciò che noto è che c’è una disinformazione paurosa sulle procedure, sugli atti pregressi e presenti, sulle persone e sulle cose. Pazienza, ma è dura.
Poi cè un malattia morale tutta italiana: l’ipocrisia.
L’ipocrisia non è la banale incoerenza, perché prima Gesù e poi, molto poi, Molière e se si vuole Guareschi, Jannacci, Gaber e Totò, ci hanno ben insegnato che ogni uomo è una contraddizione, nonostante in ogni tempo vi sia chi, giacché paga le tasse, fa il proprio dovere, non ruba, no pudidi e no fragada, ritiene di essere in pace con Dio, con gli uomini e con i santi e dunque di aver buon diritto a guardare sempre e costantemente nell’orto del vicino e a trovarlo sempre e costantemente con qualcosa che non va. Questi sono i nipotini dei Farisei, che non sono cattivi, sono fastidiosi e verbosi, eternamente scontenti di tutto e di tutti e sempre pronti a votare uno che faccia arrivare in orario i treni. Anche con questi bisogna aver pazienza.
L’ipocrisia vera è quella che esige dagli altri ciò che si sconta a se stessi. L’ipocrita è quello che pone sul dorso dei propri intimi carichi leggeri e sulla schiena di tutti gli altri gioghi insostenibili. È quello che sacrifica gli innocenti in battaglia. Quello che non ha veri vincoli amicali ma solo rapporti strumentali, che non sa riconoscere i doni e i sacrifici degli altri e li considera dovuti, scontati.
L’ipocrita uccide moralmente le persone perbene.
Non sono mai stato disponibile alla strage degli innocenti a favore dei salottieri e degli intriganti.
Troverò le forze residue, morali e finanziarie, per continuare la battaglia non tanto per me, ma per il futuro delle persone non ‘carnivore’, non abituate né alla lotta primitiva né alla ferocia degli intrighi borghesi che nel Settecento finivano tra duelli e ghigliottine.
Infine, leggo dell’iniziativa dei sindaci italiani a Cagliari.
Io rimango dell’idea che si debba partire dalla constatazione che gli interessi dei sardi sono in contrasto con quelli degli italiani. Su questo non si può essere tiepidi dopo che l’evidenza dei fatti ci ha fatto constatare la natura del contrasto e il suo ripetersi su tutte le questioni strategiche.
Rispondere da sardi alla crisi della Repubblica italiana con ipotesi di partiti nazionali italiani credo sia lo stesso errore fatto nel 1948 e ben sottolineato da Spinelli: è dal 1948 che è in crisi lo stato unitario e dal 1948 questa crisi istituzionale viene soccorsa con l’idea dei partiti-tribù, dei partiti-stato. In fin dei conti, la stessa centralizzazione dei poteri che Renzi vorrebbe realizzare con il referendum, punta a un’architettura istituzionale calibrata sul leader del partito di maggioranza relativa. Mentre in molti altri paesi occidentali la distinzione tra partito e Stato è talmente netta che i leader di partito diventano premier ma non si sognano di disegnare lo Stato sul partito, in Italia, perché non si ha cultura dello Stato, si costruisce lo Stato sul vestito più comodo per il partito che vince. Quando usciremo da queste datate informazioni? Comincio a pensare che il luogo giusto per ripartire non sia l’agone politico, troppo intossicato da mistificazioni e manipolazioni, ma l’università, dove l’obbligo di riempire le aule della luce della ragione dovrebbe impedire di riempirle del fumo della propaganda.
Comment on “Le malattie morali dell’Italia. Con una postilla sul partito dei sindaci”
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Buon giorno,
condivido completamente il trattato sull’ipocrisia dell’italiano che conduce un partito (politico) e dell’italiano medio.
Purtroppo, l’italiano che entra a far parte di incarichi amministrativi mette come priorità “i comandamenti e gli interessi del proprio partito”e non l’onestà e la legalità (morale sociale).
Per quanto riguarda l’unione dell’Italia, concordo per quanto detto dallo scrittore, infatti l’Italia è geograficamente nazione, ma, come disse G. Garibaldi, il popolo italiano non è per niente unito! Pertanto, credo che la crisi della Repubblica italiana sia dovuta proprio alla scarsa cultura dello Stato.
Saluti