La guerra dei giornali In questi giorni si è svolta una battaglia silenziosa tra i giornali italiani.
La Repubblica ha pubblicato ampi stralci della bozza del decreto ministeriale sulle intercettazioni che il ministro della Giustizia Orlando deve emanare per dare attuazione alla legge dedicata questo spinoso argomento e recentemente approvata dal Parlamento.
Secondo tale bozza il PM deve riassumere le conversazioni intercettate e non riportarle tra virgolette.
Il Fatto Quotidiano ha tuonato al fianco di Repubblica, Il Foglio ha amaramente ironizzato. Gli altri giornali, invece, non hanno pubblicato una parola neanche il giorno dopo il presunto scoop. Ragionevolmente è successo che all’interno del Ministero di Grazia e Giustizia un infiltrato di una parte avversa al Ministro o a una parte del Ministero o della Magistratura ha divulgato il testo di lavoro e ha scatenato la reazione dei più importanti giornali della sinistra italiana. Lo scopo è chiaramente condizionare il Ministro, magari tentare di impedire l’emanazione del decreto prima delle elezioni in modo da lasciare monco il percorso e affidarne la conclusione al prossimo governo.
La vicenda non ha interessato neanche di striscio i quotidiani sardi.
La confessione di Di Pietro Mentre accadeva questo scontro non banale sui temi della Giustizia (di cui i sardi dotati di responsabilità non si occupano quasi che non li riguardasse) Antonio Di Pietro, il protagonista indiscusso del biennio 1993-1994 caduto sotto il titolo storico dell’inchiesta Mani Pulite, dopo aver ammesso l’errore di aver fatto politica sulla paura delle manette, sul concetto che erano tutti criminali, ha dichiarato testualmente: «Tra i tanti effetti di Mani Pulite c’è stato anche l’effetto emulazione, sono nati i magistrati dipietristi. È uno dei rischi che la magistratura deve evitare. La magistratura fa lo stesso lavoro che fa il becchino. Il becchino interviene quando c’è il morto, la magistratura deve intervenire quando c’è il reato, la magistratura invece che vuole sapere se c’è il reato è una magistratura pericolosa, perché con le indagini esplorative si crea il delinquente prima che ci siano le prove». Teniamo a mente le sue parole per ciò che dirò dopo.
Perché interessarsi di queste cose? Il dibattito politico sardo è distratto sul tema dei diritti individuali e della disciplina dei poteri pubblici. Tra i politici sardi e i giornalisti, pochissimi si interessano di giustizia giusta, di processi giusti, di diritto alla privacy, di carceri e di libertà. I politici perché hanno paura di alcuni magistrati (ma un politico che guida il popolo e ha paura è un povero coniglio – con i suddetti magistrati – mannaro – con i cittadini – di cui non mancano autorevoli esempi in vita) e i giornalisti perché stanno con i magistrati che sono, ai loro occhi, coloro che denudano il potere e consentono loro di raccontarlo.
La Costituzione della Repubblica di Sardegna proposta da noi del Partito dei Sardi, invece, è tutta incardinata su una visione diversa, non italiana, libertaria, dei diritti della persona e dei poteri pubblici. Siamo noi strabici o c’è qualcosa nella cultura autonomista, tutta economicista, che ha impoverito la Sardegna? Quanti ricordano che la Magna Charta Libertatum (1215), che tutti gli insegnanti di storia delle scuole sarde indicano, e giustamente, come il più antico virgulto della cultura politica europea (perché sancisce una forte limitazione e una disciplina del potere pubblico, ossia del potere del re, e sancisce la nascita del vero confine tra l’Oriente e l’Occidente, ancora oggi, come ebbe a scrivere Jacques Le Goff) prevede in diversi articoli l’impossibilità per il re di incarcerare i baroni senza un “equo processo”? Chi ricorda che Voltaire, il miglior prodotto della Compagnia di Gesù, scrisse: «Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione». E se a qualcuno non dovesse piacere Voltaire come passpartout per accettare di implicarsi seriamente nei temi della libertà personale, potrebbe leggere Adriano Sofri (e quanto farebbe bene la lettura di Sofri a tanti esponenti dell’estremismo intercettista italiano) e meditare bene le sue parole: «Può capitare a chiunque, anche a voi di finire in galera. Al contrario, è probabile che non vi capiti affatto. Tuttavia, anche se non andrete dentro, c’entrate. C’entriamo tutti».
C’entriamo tutti e quindi parliamone.
Le intercettazioni trascritte o riassunte Questa pensata del Ministero di evitare la trascrizione integrale della intercettazioni e di sostituirle con una sintesi è una pessima pensata. Per i sardi sarebbe una catastrofe. Infatti, per il fatto che noi non parliamo italiano ma, come diceva un linguista seicentesco, ‘toscaneggiamo’, cioè usiamo un italiano povero e scolastico ma privo della ricchezza e della sicurezza che hanno, per i parlanti, le vere lingue madri, noi sardi non concludiamo mai le frasi. Questa abitudine è, nel clima di sospetto in cui si svolge un’indagine, già un presupposto sintattico che si traduce nella testa della Polizia Giudiziaria in indizio di colpevolezza. In più, il nostro lessico è frequentemente innervato di sardismi, non tutti noti alla Polizia Giudiziaria, come è emerso in diversi processi della Sardegna, con fraintendimenti talvolta clamorosi.
L’unica possibilità di capire correttamente conversazioni caratterizzate da frequenti anacoluti (parola che, se usata in una conversazione intercettata potrebbe generare anche un’inchiesta per offesa al pubblico pudore) è legata alla trascrizione integrale della conversazione e all’esplicitazione totale del contesto. Ma qui casca l’asino: come si fa a esplicitare, da remoto, il contesto? In sostanza, al netto di frasi chiare e inequivoche, perché una conversazione tra due sia interamente compresa da un terzo che ascolta a loro insaputa, è necessario che il terzo abbia sugli argomenti trattati le stesse informazioni e la stessa cultura dei due parlanti, cosa assai difficile. Da quando mi sto occupando di ‘giustizia giusta’ alcuni avvocati coraggiosi (pochissimi) mi hanno fatto leggere atti processuali depositati nei quali, a valle di intercettazioni, si ipotizzano reati su fatti assolutamente fraintesi da chi ascoltava per difetto di informazioni, di conoscenze elementari, non solo rispetto a leggi settoriali, ma anche alla cronaca amministrativa e politica, oltre che per pochissima pratica con la pubblicità digitale degli atti pubblici.
Da filologo e da cittadino dico dunque: «Guai ai riassunti!».
Altro discorso è: quali sono le intercettazioni che devono finire in un fascicolo giudiziario? La risposta è semplice: quelle per le quali vi è un riscontro documentale o testimoniale che dimostra che la conversazione è una prova rispetto a un reato. E qui torna in campo Di Pietro e la sua clamorosa denuncia: vi sono PM e Gip che non indagano su un reato, ma indagano per sapere se c’è un reato, fanno le indagini, come ha detto lui, ‘esplorative’, caratterizzate dalla creazione fantasmatica del delinquente prima che ci siano le prove. Questi specialisti del sospetto, che costruiscono architetture di colpevolezza sfidanti in altezza le cattedrali gotiche e in fragilità logica i primi ragionamenti dei bambini, in genere costruirscono l’accusa sulle deduzioni dalle intercettazioni, non dalla verifica documentale delle intercettazioni. Sto cercando, per farne poi un libro, di raccogliere un numero significativo di richieste di intercettazioni e di proroghe di intercettazioni depositate in processi già conclusi contro persone assolte da ogni accusa e il primo dato che già emerge è che il PM per ottenere l’intercettazione produce un profilo delinquenziale dell’intercettato prima ancora di avere evidenza che lo sia. Le indagini esplorative sono caratterizzate proprio da questa psicologia: monitorare un cittadino profilato come delinquente in attesa che commetta il reato che confermi il profilo. Qualora non commetta il reato ipotizzato, gliene si attribuisce comunque uno secondario per giustificare mesi di indagine, ma soprattutto si usano le intercettazioni per screditarlo moralmente, cioè per intaccarne le possibilità di difesa. E qui entrano in campo i giornali e le televisioni. Una delle tecniche usate con eccitazione quasi morbosa dalla Polizia Giudiziaria nel trascrivere le intercettazioni è quella di riportare esattamente e sempre le parolacce. L’altro ieri un avvocato mi ha fatto leggere due intercettazioni di un processo relativo a fatti del 2007 nelle quali fatto 100 il testo significativo per il dibattimento, contando le parole, il 40% era costituito da espressioni scurrili usate dagli interlocutori e assolutamente ininfluenti ai fini dell’accertamento dei reati. Perché ogni parolaccia detta è puntualmente registrata, mentre altre parti delle conversazioni vengono omesse perché irrilevanti? L’intento è chiaro: la parolaccia volgarizza, connota negativamente chi la pronuncia. Leggere che un ministro dice: «Ma che cazzo state facendo?», è ininfluente sul piano processuale, ma sporca la camicia del ministro e aiuta l’accusa di fronte all’opinione pubblica. Sono le tecniche di connotazione negativa che tutti i servizi di intelligence insegnano e praticano, ahinoi!.
Il diritto di cronaca e il Voyeurismo Ieri sia Il Fatto che Repubblica protestavano contro il decreto del Ministro perché lo accusavano di essere lesivo della libertà di informazione. In tutto il mondo vi è una curiosità morbosa per la vita privata dei personaggi pubblici. Li si vuole vedere in bagno, li si vuole vedere nella camera da letto, e tutto col pretesto di volere sapere se il tale statista è davvero una persona affidabile. Il voyeurismo politico-giudiziario esiste da quando esiste il mondo, ma il moralismo calvinista e cattolico ne ha fatto una formidabile arma politico-giudiziaria. Chiariamo però un concetto: è chiaro che è di rilevanza pubblica sapere se un candidato alle più alte cariche di uno Stato o di una Amministrazione è un cliente abituale di bordelli, perché è chiaro che qualora eletto sarebbe alla mercé del più scalcinato servizio di intelligence. Ma non è certo rilevante sapere che cosa dice o che cosa chiede o che cosa fa con le sue accompagnatrici. È chiaro che ha rilevanza pubblica sapere se un personaggio investito di responsabilità pubbliche è un alcolista oppure no; ma non ha alcuna rilevanza pubblica fotografarlo ubriaco riverso su una poltrona o pubblicare le sue conversazioni biascicate.
Io penso che se un cittadino, e tanto più un personaggio pubblico, ha commesso un reato confermato da una conversazione intercettata, allora quella conversazione deve poter diventare pubblica. Ma se è anche soltanto dubitabile che quel reato non sia stato commesso e l’intercettazione non è dirimente, allora non vi è alcun motivo di pubblicarla e la nuova norma sulle intercettazioni va in questa direzione. Il guaio è che non appena una conversazione entra in atti giudiziari è come se diventasse pubblica, basta vedere il trattamento di questi giorni delle chat ‘segrete’ della sindaca Virginia Raggi. Ma quale è il modo migliore per disincentivare l’abuso di intercettazione e di pubblicazione delle intercettazioni? Ve n’è solo uno, già praticabile oggi, ed è quello dei danni civili e dell’attivazione dei procedimenti disciplinari verso i pubblici ufficiali che abbiano abusato del loro potere. Già oggi pubblicare un atto non pertinente o comunque irrilevante ai fini dei reati accertati o anche solo divulgarlo è un fatto rischioso per chi lo fa, specie se la conversazione è stata intesa come notizia di reato e poi si è rivelata invece notizia di diritto, cioè indizio di comportamenti virtuosi. In una società ipercompetitiva e violenta come quella italiana, il modo per ricostruire una cultura della giustizia da parte di chi ha la coscienza a posto è assumere un atteggiamento proattivo di incentivo alla difesa. Quando nel 1993 si celebrava il processo per Mani Pulite e Un giorno in pretura faceva più ascolti del migliore dei programmi, Umberto Eco scrisse sull’Espresso: «Se mi accadesse di essere trascinato in un dibattimento ripreso per televisione, mi dichiarerei prigioniero politico e rifiuterei di rispondere». Bene, a tanti è accaduto di essere processati non in televisione ma sui giornali e in piazza. La risposta non è il silenzio sdegnoso, ma l’organizzazione della difesa, il reclutamento di avvocati e di giuristi e di politici coraggiosi, né conigli né mannari, ma uomini, uomini verticali, capaci di portare nelle aule della giustizia civile, al Consiglio Superiore della Magistratura e ai Comandi generali delle forze dell’ordine i comportamenti censurabili di chi costruisce la colpevolezza e poi cerca le prove.
Noi del Partito dei Sardi siamo così: uomini fragili come tutti, ma verticali, molto verticali, che sollecitano i propri interlocutori sui grandi temi della libertà, del coraggio e della fatica di vivere e di non sopravvivere subordinandosi alle tante microtirannidi che un ordinamento violento e vecchio genera ogni giorno.