di Paolo Maninchedda
Ho letto e riletto stanotte i resoconti del dibattito in Consiglio regionale sulla scuola.
Tutti hanno diritto a difendere le proprie posizioni e quindi anche noi e anche io.
Registro una diminuzione culturale di coscienza nazionale nel dibattito dell’Assemblea dei sardi che è mio diritto contrastare. Legittimissimo pensare alla propria cultura attraverso lo stretto cannocchiale della cultura italiana (la quale ci considera un’espressione periferica di se stessa). Legittimissimo pensare se stessi, come istituzione, come se fossimo all’interno di uno Stato perfetto e perfettamente funzionante, perfettamente adempiente rispetto ai diritti di libertà e sviluppo dei sardi. Ma altrettanto legittimo dissentire e provare a combattere con uno Stato che è in fuga da tutto, che non mantiene i patti se non quando è costretto, che pretende di applicare gli stessi provvedimenti a latitudini diverse anche quando tutto questo ha effetti ingiusti e gravi. Altrettanto legittimo dedicare la vita ad insegnare ai ragazzi ad essere autonomi, a costruirsi una proprio linguaggio, un proprio modo di vedere le cose, indipendente dalle egemonie culturali dominanti, in modo da far loro scoprire il diritto a immaginare un futuro non dipendente da altri, costruito sulla responsabilità e sulla relazione non subordinata col mondo. Io ho fatto e faccio l’insegnante in questo modo e ho insegnato a tanti a diventare adulti e a scoprire che il luogo in cui si vive attende di essere riconosciuto come patria e non come albergo.
Il tema di ieri non era solo la legge 107, ma era anche e soprattutto il giudizio sulla sua applicazione da parte del Direttore dell’Ufficio Scolastico Regionale, non nuovo ad atteggiamenti proconsolari o prefettizi, e anche e soprattutto il mancato esercizio da parte della Regione dei poteri che le derivano dalla legge regionale 3 del 2009, articolo 9 comma 4; articolo poco conosciuto dai sindacati e dai precari, ma, guarda caso, corroborato da una sentenza favorevole della Corte Costituzionale.
Al di là del merito della questione, noi indipendentisti stiamo concorrendo lealmente al governo regionale e anche, in alcuni casi, con incidenze non banali. Mi riferisco, per sempio, alla collaborazione con l’Assessore Paci sull’Agenzia delle Entrate e alla predisposizione e al dibattito sulle Norme di attuazione. Mi riferisco in particolare al duro lavoro per affrontare il gravissimo problema del rischio idrogeologico e l’intero ciclo dell’acqua, nel quale anziché rivendicare compiacenze e benevolenze agli italiani, ci siamo messi a lavorare duro e a tentare di risolvere problemi (ci vorranno decenni, ma abbiamo iniziato). Mi riferisco al difficile rapporto con l’Anas, che è un pezzo dell’Hydra di Stato.
Però noi non ci riconosciamo minimamente nel pregiudizio di efficienza, lealtà e innocenza ricnosciuto allo Stato italiano. Noi non abbiamo pregiudizi: la storia ci insegna che il pregiudizio di innocenza va trasformato nel giudizio di slealtà verso lo Stato italiano. Niente di grave, ma in maggioranza ci siamo anche noi, con questa impostazione, e se la sintesi culturale non ci comprende, come può normalmente accadere, abbiamo il diritto di far sapere che noi abbiamo una testa diversa, un obiettivo diverso, un’ambizione più alta.
Siamo in minoranza rispetto a questa impostazione innocentista? Certo. Garantiamo lealtà e votiamo conformemente alla maggioranza, ma è nostro diritto esplicitare le differenze e chiedere consenso sociale su un modo diverso di vedere le cose. In questo modo, almeno si sa ciò che andremo a fare se un giorno saremo di più.
Comment on “Le differenze culturali”
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E’ opinabile se la coscienza sia un fatto culturale o la cultura sia un fatto di coscienza. Se è vera la prima non abbiamo grosse speranze di cambiamento, se è vera la seconda, è chiaro quanto sia scomodo tradurre sul piano istituzionale sardo, il nesso tra indipendenza e responsabilità. L’orizzonte indipendentista attrae molto, ma sul piano pratico tutti siamo un piede dentro e un piede fuori. A fronte di questo forse potremmo considerare di essere un’Italia diversa. L’Italia sarda diversa da quella italiana. Il disinteresse teorico all’indipendenza, da parte della politica, diventa un condizionamento ad agire sul piano pratico. Per tutti. La cultura dell’indipendenza è, in prospettiva, cultura della responsabilità. Più c’è responsabilità più c’è indipendenza, come forma di libertà che viene prima delle leggi. Più dipendiamo da un superiore meno siamo responsabili, lasciando ricadere la responsabilità su chi ci governa, e il rovescio della medaglia è che chi ci governa ci tiene meno liberi. In Italia siamo alla c.d. “beatificazione del padrone”. In Sardegna ridotti a subire il funzionamento spontaneo delle istituzioni, che funzionino o meno. Esempio pratico di incoscienza sarda: la legge elettorale. Basata com’è ovvio, sulla paura di perdere più che sull’autenticità dei programmi, incardina a tutti gli effetti (come le primarie), il principio della scelta ristretta dei nomi, vale a dire la presunzione che non consentire all’elettore la possibilità di scegliere, vada preferita all’ipotesi che egli abbia fatto una scelta. E i nomi in Sardegna si sa, sono chiaramente collegabili ai bacini di voto. Attenersi a questo principio, equivale a rispettare le probabilità a priori che niente dopo le elezioni cambi, sia a livello regionale che a livello parlamentare. E questo significa prendere per il naso la gente. Figuraccia ha voluto che prima si sia puntato sulla matematica, dall’esito infallibile – della serie: dividiamo l’azienda Sardegna in due metà quasi uguali – poi, visto l’esito nefasto delle elezioni, si sia arrivati addirittura al disconoscimento della matematica, mai ammettendo che probabilmente tutto è riconducibile a un imbroglio sull’ordine dei commi, per ovviare alla logica rappresentazione territoriale (e partitica) dei seggi in consiglio. Roba da scatenare una caccia agli intellettuali! Questione di deficit culturale anche questa. La dipendenza sarda insomma, è un inganno culturale, a partire dal fatto che la legge italiana livella tutti, e anziché risolvere i problemi di tutti, redistribuisce i problemi su tutti. Sarebbe buono che noi Sardi prendessimo con coscienza sarda, e senza intermediari, le decisioni che ci riguardano. Servirebbero ad esempio delle forme di democrazia diretta a integrazione di quella rappresentativa, per dar voce alla gente sui problemi reali. Se non si possono saldare i partiti in coalizione, si possono saldare le proposte, sulla base di decisioni collettive, per mediare dei compromessi costruttivi con lo Stato. Diffondere il voto elettronico da casa o da cellulare, per fare anche semplici sondaggi consultivi, sarebbe uno strumento democratico per sottoporre a risultanza pubblica, certo tipo di quesiti che ricalcano necessità contingenti o conflitti sociali sui territori.