A leggere con un po’ di attenzione i dati sugli occupati in Sardegna e a incrociarli con ciò che dice l’Istat sulle caratteristiche che deve avere chi cerca lavoro per avere una ragionevole speranza di trovarlo si rimane un po’ peplessi per le ottimistiche dichiarazioni che hanno attraversato il sistema politico sardo.
Intanto, in quali settori sono i nuovi 13.000 occupati?
Prevalentemente nel settore turistico: Hotel, ristoranti ecc. Certamente si tratta di un dato positivo, ma è altrettanto vero che tutti sappiamo trattarsi di un fatto dovuto alle estati climaticamente lunghe, all’ottimo lavoro dell’aeroporto di Cagliari, alla congiuntura politica internazionale che ha inibito l’utilizzo turistico delle mete della sponda africana del Mediterraneo.
Viceversa gli occupati nell’agricoltura sono invariati, come pure quelli nell’industria.
Semmai c’è da assumere fino in fondo la domanda: quale industria in Sardegna? Bene, quella di una volta, quella da centinai di occupati stabili, fissi e indifferenti ai cicli del mercato, non esiste più. Ieri Davide Madeddu sul Sole 24 Ore dava notizia delle fasi conclusive della vicenda Alcoa (contemporaneamente sui social sardi imperversavano le visioni non proprio rosee del mondo ambientalista) che dovrebbero portare entro ottobre alla definizione del percorso di rapertura della fabbrica: investimenti per 128 milioni di euro (di cui 30 del privato) per un’occupazione di 40 persone. È vero che il Piano industriale parla a regime di 300 occupati, ma nei giorni scorsi si faceva notare sui giornali che la miniera di carbone per cui Trump ha disdetto gli accordi di Parigi sul clima, ha riaperto con circa 70 addetti, molti meno di quelli attesi e annunciati durante la campagna elettorale a giustificazione del ritiro da uno degli accordi più proficui per l’ambiente e per l’umanità.
Rimango dell’idea che l’industria possibile in Sardegna è un industria di nicchia, di cose ad alto valore aggiunto e legate alla qualità della vita e dell’ambiente. Questo tipo di industria non cerca più le braccia, cerca i cervelli.
Sapete che cosa cercano in Italia e nel mondo le industrie agroalimentari e in particolare le imprese del vino? Cercano manutentori di impianti industriali, i quali non hanno più come un tempo le mani sporche di grasso; no, i manutentori sono digitalizzati, conoscono l’inglese, lavorano col tablet.
Le imprese poi cercano tecnici della certificazione di qualità, cercano disperatamente export manager (la gran parte della ripreesa attualmente in atto nel Nord Italia nasce dalla capacità della piccola e media impresa di penetrare i mercati orientali).
Le imprese cercano ingegneri specializzati nell’elettronica analogica, cercano tecnici delle telecomunicazioni, ma anche meccanici di nuova generazione, capaci di intervenire su macchine costituite largamente da centraline givernate da un software.
Bene, la Sardegna a che punto è nella gara dell’istruzione utile per il lavoro? La risposta è semplice: è a un pessimo punto e non ragiona adeguatamente sulla riforma della formazione professionale, sull’integrazione di questo settore con quello dell’istruzione, sul fenomeno dell’overdeucation ossia delle persone laureate che svolgono un mestiere per il quale non è richiesta la laurea (penso ai tanti laureati in lingue che fanno i camerieri), o ancora non si riflette su un fatto rilevante: in Italia il 30% dei posti per i quali è richiesta la lurea non viene coperto per mancanza dei candidati (18%) o per inadeguatezza degli stessi (15% Dati Unioncamere).
A me pare che il nesso tra formazione adeguata e possibilità di trovare lavoro in Sardegna non sia adeguatamente colto, né dalla politica né dai cittadini. La gente continua a scegliere un percorso formativo senza un’adeguata strategia personale e poi esige che sia il mercato ad adattarsi alla sua formazione, adeguata o meno che essa sia.