di Paolo Maninchedda
Ieri è stata una giornata molto simbolica.
Io sono andato in Commissione Lavori Pubblici per dire che per la prima volta nella storia la legge finanziaria regionale non ha un solo articolo dedicato ai lavori pubblici, grazie all’eccitazione priapesca con cui i funzionari del Consiglio regionale hanno applicato la norma che elimina le norme intruse. Decisione inappellabile come ai tempi del re Sole. Amen.
Fatto è che in Commissione ne è nata una bella discussione sul modo di reperire risorse, non dico per nuove infrastrutture, ma almeno per impedire che il patrimonio esistente non vada in rovina. Per esempio, occorrono diversi milioni di euro l’anno per manutenere i quasi 9.000 km di strade comunali e provinciali. Si potrebbe risolvere tutto destinando alle manutenzioni stradali il gettito dei bolli auto, ma qui ci si trova di fronte il muro santo, invalicabile, inconoscibile e impenetrabile dei costi della sanità e dell’assistenza. Tutto va in siringhe ma qualora un sardo, neanche ricco, appartenente al più diffuso dei ceti medi, abbia bisogno di un’iniezione appena appena più complessa del solito, va a farsela fare nella penisola o in Europa.
Mentre io ero in Commissione, Raffaele Paci affrontava un difficile confronto in maggioranza sulla manovra finanziaria, con richieste di intere forze politiche di ripristinare lo stanziamento storico dell’assistenza. Ballano qualcosa come 30 milioni di euro. Ognuno ha le sue ragioni, tutte rispettabili, però è da due anni che si cerca di avere un esame dettagliato della natura e della qualità della spesa sociale e non ci si riesce. Non avendo dunque la struttura conoscitiva utile per decidere strategicamente (cioè in modo da garantire i servizi a chi ne ha bisogno, ma anche in modo da ridurre l’incidenza dell’assistenza sul bilancio regionale) il minimo che si dovrebbe fare è indicare quale voce (o quali voci) vanno in diminuzione per 30 milioni. E qui interviene il terzo elemento simbolico della giornata: l’incontro in Presidenza con i rappresentanti delle associazioni che hanno guidato la manifestazione pro Sulcis di avant’ieri. Il succo del confronto è che, pur essendo il Piano Sulcis ben finanziato, lo stanziamento non sembra adeguato a fronteggiare l’attualità della crisi (intendo dire che gli effetti del Piano si sentiranno tra 4/5 anni, mentre la crisi dei redditti è oggi; ciò che i sulcitani non sanno è che altri territori soffrono come loro e non hanno il Piano Sulcis). In un sistema riformista autentico, le riforme strutturali sono accompagnate da interventi congiunturali che dovrebbero garantire la transizione da un modello all’altro. Le riforme congiunturali per il lavoro (non solo per chi l’ha perso, ma anche per chi lo cerca) richiedono denaro, ma se il denaro disponibile è interamente destinato a soddisfare lo storico della sanità e dell’assistenza, nessuna politica congiunturale è possibile.
È una situazione che mette in evidenza come il modello tipicamente autonomistico della rivendicazione a oltranza si traduce inevitabilmente in una politica della spesa sostanzialmente indifferente all’entrata. Questa politica oggi, con le regole dell’equilibrio di bilancio, porta al crack. Riflettiamoci.
Comment on “L’Autonomia che ha insegnato a spendere e non a produrre”
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Concordo con molto di questo post, in particolar modo per i riferimenti alla vita reale. Tant’è che in prospettiva di un futuro pericolosamente prossimo, ritengo che le cose possano velocemente ed ulteriormente peggiorare. Mi chiedo non sia venuto il momento di guardare in faccia la realtà, senza omissioni e distinguo, accettando il fatto che siamo comunque in una economia di crisi, come non mai nella storia, perlomeno dalla rivoluzione industriale ad oggi – non mi dilungo a ricordare che dagli anni ’90 ed in maniera sempre più preoccupante, le nuove generazioni hanno perso riferimenti e certezze in materia di opportunità economiche e quindi di un percorso di vita ragionevolmente programmabile e che il quadro nell’ultimo decennio è ulteriormente peggiorato anche per ciò che riguarda, chi un lavoro pure l’aveva – per cui ritengo sia arrivato il momento di provare a far fronte alle difficoltà, ove si può, attingendo a strumenti propri delle economie di crisi, o se la vogliamo vedere con ottimismo, delle economie con un inespresso potenziale di crescita, riorganizzando e programmando laddove possibile, in settori che coinvolgono ampi strati della società, in modo “liberale”, tante piccole economie private, che abbiano la forza di disimpegnare risorse pubbliche – riprogrammabili in modo “sociale” – dando respiro ai sempre più asfittici bilanci pubblici. Certamente si abbisogna di ricercare soluzioni anche innovative e perciò di difficile valutazione, ma qualcosa bisognerà pur fare, perché nuovi e poco rassicuranti sono gli scenari e nuove devono essere le idee e gli strumenti di cui abbiamo ed avremo bisogno per contenerne le cause ed auspicabilmente migliorarne gli effetti.