di Paolo Maninchedda
Posto che oggi abbiamo la luminosa notizia sanitaria, secondo la quale l’imperatore Moirano ha assicurato lo sblocco delle assunzioni a Nuoro (nessuno che abbia il coraggio di chiedere a sua Maestà, che ancora deve dimostrare di possedere i requisiti di eccellenza extra sarda che gli hanno consentito di conquistare la corona, se e come il piano dei risparmi che sta programmando non stia incidendo sul livello dei servizi – Sassari e Nuoro sono già scoppiate, a breve salta per aria Oristano) e posto anche che tanto è inutile occuparsi della tragedia finanziaria della sanità perché sembra ineluttabile che ci si vada a rompere la testa fino a spappolarsela, occupiamoci di altro. Occupiamoci di latte.
Non ho ancora potuto leggere la forma assunta dopo il dibattito in Aula dall’articolo della finanziaria che stanzia i 14 milioni di euro per rafforzare la misura indigenti, ossia il ritiro delle eccedenze del formaggio pecorino romano. Non mi stupì che la prima versione dell’emendamento avesse trovato tutti concordi i dirigenti dell’amministrazione regionale: era talmente complicato da destare la certezza che i soldi non si sarebbero spesi. Ma poniamo che il testo sia stato migliorato e che i soldi siano spendibili e ottengano l’effetto desiderato: l’aumento del prezzo del latte e quindi del reddito dei produttori.
In totale, tra il bando Agea e questi 14, le risorse messe in campo per smaltire le eccedenze sono 18 milioni di euro, una cifra enorme, che personalmente non ho alcuna certezza possa determinare non tanto un miglioramento del prezzo, che ci sarà, o un suo consolidamento sui valori più alti del prezzo del latte attualmente disponibili sul mercato, ma quell’incremento del reddito dei produttori che i pastori si attendono. Resto dell’idea che il reddito delle imprese agropastorali reali (non quelle di carta, esistenti solo per i contributi) sia da integrare attraverso il loro utilizzo per la manutenzione del territorio, piuttosto che con politiche estemporanee di correzione delle cicliche dinamiche di mercato. Resto dell’idea che funzioni di più e meglio il pegno rotativo, che costringe anche i grandi produttori a una gestione trasparente del magazzino e quindi a una verificabilità del rispetto del piano dell’offerta, ma detto tutto questo (cioè fatta una discussione razionale quale quella che non c’è stata su questo tema, grazie al populismo al lattosio messo in campo dalla celeberrima manifestazione della Coldiretti per la beatificazione del ministro Martina) proviamo a vedere come si sono comportati e che cosa fanno i cugini del comparto del latte vaccino, così, per capire.
Intanto la 3A di Arborea diversifica davvero.
Non ha fatto solo il Gran Campidano, ma ha fatto una linea di cosmetici derivati dal latte, e se per il momento produce i suoi cosmetici in stabilimenti della penisola, sono sicuro che a breve li produrrà qui da noi. La Regione è forse intervenuta sul crollo del latte vaccino? Assolutamente no, eppure c’è stato. A marzo 2016 si registrava uno squilibrio tra produzione e domanda che ha generato un crollo significativo dei prezzi del latte che è proseguito per tutto il 2016 portando ad una riduzione dei prezzi del latte bovino senza precedenti. Negli ultimi tre mesi dell’anno scorso la situazione è cambiata sensibilmente ed ora il prezzo del latte bovino è risalito sensibilmente ricreando condizioni di marginalità e fiducia per gran parte dei produttori Europei di latte. Come e perché il prezzo è risalito? C’è stata una riduzione della produzione dovuta sia alla riconversione produttiva di molte aziende in Germania, Francia e Belgio, sia a un incentivo dell’UE rivolto alla riduzione della produzione (500 mln di euro destinati a promuovere una riduzione della produzione in tutti i Paesi Membri: produzione UE latte bovino 143 mld di litri di latte) e ad una ripresa della domanda mondiale ed in particolare di quella asiatica. Si potrebbe dire allora: sul latte vaccino ciò che non fa la Regione lo fa l’Unione europea. Ma non è così, perché l’Unione è intervenuta a ridurre la produzione non a tenerla invariata ritirando le scorte per tenere il prezzo. Ma poniamo anche che si vogliano equiparare le misure, quella regionale sull’ovino e quella europea sul vaccino, resta l’obbligo dei produttori di diversificare. Lo si sta facendo? Si ha davvero una strategia mondiale sul latte ovino? Si sta guardando seriamente a che cosa stanno mettendo in piedi i neozelandesi che ci hanno già rubato il trifoglio? Si vogliono realmente togliere i pastori dalla subordinazione selvaggia alle oscillazioni di prezzo del mercato? Allora bisogna innovare la politica che li riguarda: se a ogni oscillazione di mercato deve corrispondere una manifestazione di piazza e uno stanziamento di risorse pubbliche per fronteggiare il mercato, allora si deve dire che si vuole mantenere tutto immobile, favorire chi non diversifica, chi continua a mungere a manetta pensando di garantirsi in questo modo livelli di reddito più alti anziché, come accade realmente, produrre per sé un grande danno, giacché se si munge pensando a mungere e non a vendere ci si fa danno.
Ricordiamoci ciò che siamo stati indotti a fare: 18 milioni di euro per finanziare vecchie misure di intervento sul mercato e nessuna innovazione. Risultati attesi nei prossimi mesi? Gli stessi che avremmo ottenuto col solo pegno rotativo e con il bando Agea fatto bene. Perché siamo così restii a ragionare e così pronti, invece, a reazioni d’istinto, tutte vecchie, tutte tali da generare subordinazione?
Meno male che nelle aziende agricole sta crescendo sempre più un ceto di piccoli imprenditori istruiti, che legge, si documenta, cerca di capire e non delega più la sua rappresentanza e la sua ricchezza con troppa facilità. Noi, coi fiumi di latte ovino che possediamo, potremmo sfamare mezzo mondo, a patto di diversificare, stoccare, migliorare la qualità, investire nella connessione prodotto/territorio ecc. ecc. Ce la faremo, ma nel frattempo, ogni tanto, torna ‘su connottu’, la pessima abitudine di affidare al passato il nostro futuro.