Ciò che è tragicamente accaduto a Oliena ieri, dà oggi motivo a diversi commenti sui giornali. Ritornano così a galla tanti luoghi comuni.
In primo luogo, ritorna sulla bocca di tutti il fortunato titolo di un libro metodologicamente sbagliato e ideologicamente geniale come Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico (recentemente riedito da Maestrale con curatela del filologo Giancarlo Porcu). Chi ha dovuto studiarlo prima da studente e poi da insonne (chi non dorme, legge di tutto) sa che è un libro indimostrato, che manipola le fonti in un discorso di straordinaria intelligenza filosofica (espressa in un linguaggio a lunghi tratti ermetico) che è soprattutto, ma lo si capisce solo se si ha la pazienza di leggere tutto il Pigliaru filosofo, l’ennesimo tentativo dell’autore di darsi una risposta sul male.
Di altra pasta metodologica, più esatta metodologicamente, ma meno intrigante filosoficamente, è l’inchiesta più famosa di Franco Cagnetta “Inchiesta su Orgosolo”, apparsa con questo titolo su Nuovi Argomenti, dopo un saggio, dell’anno precedente, a mio personalissimo avviso, di singolare bellezza, sulla vita di Samuele Stochino raccontata dalla sorella. Oggi Cagnetta viene letto attraverso Banditi a Orgosolo riedito da Ilisso. La differenza tra i due testi (Pigliaru vs Cagnetta) è il presupposto ideologico: sostanzialmente ancora gentiliano quello di Pigliaru, sebbene attenuato dall’incontro con Capograssi e con la teoria della molteplicità degli ordinamenti giuridici; marxista quello di Cagnetta, interessato a esplicitare come l’azione dei singoli stia sempre dentro la logica del conflitto di classe.
Negli stessi anni Giovanni Lilliu dava forma alla sua Costante resistenziale sarda, un tentativo di spiegazione storica del banditismo come reazione alla sopraffazione esterna della Sardegna, cioè, una lettura anticolonialistica avversatissima dai marxisti perché giudicata sostanzialmente innocentista e nazionalista.
Poi vennero la Commissione Medici (1969), il libro eretico di Giuseppe Puggioni-Nereide Rudas, Caratteristiche, tendenzialità e dinamiche dei fenomeni di criminalità in Sardegna, il libro divulgativo, furbissimo ma molto intelligente (in senso etimologico) di Brigaglia, Sardegna perché banditi, e il fortunato libro di Pira, La rivolta dell’oggetto. Si può dire che il pantheon ideologico sul banditismo si forma dentro il perimetro di questi libri (aggiungerei il libro di Bellu e Paracchini Sardegna. Storie di terrorismo per capire una parte più recente della storia).
Eppure oggi, a distanza di tanti anni e di tanti morti, bisognerebbe accettare di dire con chiarezza che sebbene sia verissimo che il male declina diversi linguaggi a diverse latitudini, la vendetta come la morte, non ha ontologicamente spiegazioni locali, ma attende ancora spiegazioni universali. Si ammazza per vendetta in tutte le località del mondo e la banalità del male, la sua pretesa di non dovere avere profonde ragioni piuttosto che banali, ci è stata bene insegnata dalla brutalità della storia.
Oggi, nel fondo sulla Nuova Sardegna, Giacomo Mameli riferisce la frase, non proprio di un uomo di legge, secondo il quale i morti qui in Sardegna continuano a vivere.
Si potrebbe dire che ciò accade in tutto il mondo.
Tutti portiamo i nostri morti nel cuore.
Tutti.
Alcuni sono capaci di non farsi sedurre dalla soddisfazione della morte del nemico, altri no.
Il male diviene un fatto collettivo per sommatoria di scelte individuali.
Il problema del delitto di Oliena non è il movente, è il killer, il cuore del killer.
Esistono uomini capaci di uccidere altri uomini, in genere per denaro.
Di questo si dovrebbe parlare, di come diventa nero il cuore di chi uccide, di come diventa la vita di chi invecchiando vedrà sempre più nettamente i volti delle sue vittime cingere d’assedio la sua memoria.
I giornali oggi parlano dei moventi. Nessuno dedica un profilo al cuore nero del killer.
Non di Sardegna si tratta, ma di male, di male puro, di cui si nega l’esistenza.
Non si insegna più l’esistenza del male (si parla di errore, di mancanza, di disagio ecc. ecc.), non si mettono più i ragazzi di fronte alla scelta più importante della vita.
Si educa a vincere nelle scuole italiane, o a rassegnarsi a perdere; non si insegna più a scegliere il bene, a riconoscerlo, ad essere orgogliosi di realizzarlo.
Ed è qui che nascono i killer.
Resto convinto che fa più un uomo buono e buon educatore incontrato da piccoli, che mille pene, mille carceri.
Fa più un buon libro spiegato che un fucile imbracciato, ma bisogna insegnare queste cose, non darle per scontate.
La Sardegna c’entra poco.
C’entra la natura umana e il suo lato più oscuro che facciamo finta non esista.
Un ottimo scavo nei meandri socio antropologici di Sardegna, senza indugiare sulle pseudo ragioni della “vendetta barbaricina”. Educare al bene dovrebbe essere l’ipostasi della nostra società. Ho più perplessità sul recepimento delle ragioni del bene. Il male è una meta. E il percorso per giungervi è seduttivo, semplice da percorrere e spesso remunerativo. È diretto e richiede poca fatica, talvolta solletica l’ingegno. L’esatto contrario del bene, che è faticoso, comporta rinunce, attira ingratitudine e spesso sacrifici economici. Ma non bisogna perdere la speranza. Un mondo migliore è possibile, anche se costa più prendere in mano un libro che impugnare un’arma.
Bellissime considerazioni. Dove c’è cultura c’è ricchezza, anche di comportamento.
che bell’articolo Paolo…lo stesso fatto che raccontano tutti i media , ma visto da una diversissima e nera prospettiva….originale e profondo quanto basta per suscitare domande in noi lettori…io , personalmente mi sono sempre chiesto a che età ( circa ) una persona abbandona la strada del bene per quella del male…in tutti campi , politico , sociale , giudiziario…e quali motivazioni lo portano ad essere corrotto , corruttore , assassino , ladro , evasore fiscale etc…perchè fino all’adolescenza/giovane maturità l’essere umano mi sembra e penso che sia animato dai migliori principi e dalle più nobili intenzioni…poi…boh ?? qual’è l’elemento scatenante che porta a far scegliere una strada bella per una molto più brutta…la debolezza caratteriale ?? la mancanza o la vacuità dell’ educazione familiare ?? una qualche ” predisposizione ” genetica ??….
La tua analisi, Paolo, è confortante. Anche se, all’inizio, parrebbe il contrario.
Dà sollievo pensare, come dici tu, che il male, universale, colpisce dovunque e comunque nello stesso modo, con la stessa intensità. Pensare che la possibilità di scelta tra bene e male non dipenda fortissimamente dalle strutture sociali in cui ci troviamo ad agire; pensare che si riesca ad non obbedire – più o meno facilmente – a regole consolidate che non condividiamo; ecco, pensare che tutto ciò sia proprio dell’Uomo in quanto tale in qualunque latitudine ci si trovi, è un pensiero ‘consolante’.
Ma più di tutto è consolante il rimedio, questo si davvero unico ed universale: un buon educatore , qualunque ruolo rivesta ( incontrato al momento giusto, da bambini, quando vengono seminati i valori che, attecchendo, formano un adulto giusto e responsabile), vale molto più di mille pene e mille carceri. E’ questo ciò che veramente conta.
«Si educa a vincere nelle scuole italiane, o a rassegnarsi a perdere; non si insegna più a scegliere il bene, a riconoscerlo, ad essere orgogliosi di realizzarlo.»
… E nàmuli educatzione, nois! E tambene si fit solu cosa de iscola, inue, fossis, nessi peràulas si bi podet intèndhere de educatzione!
Sa ‘civiltà’ dominante est totu a bínchere no su male, ma sos àteros: avversari, concorrenti, nemici, a vita mea mors tua.
Si est civiltade sa gherra za bi semus in prenu, totu sos istados cun arsenales prenos de armamentos chi tiant ispèrdere s’umanidade no una ma a tantas bortas!
Isperamus chi mai los impreent. Ma intantu est gherra (“mondiale a pezzi” narat Paba Frantziscu) cun totu sos significados de sa gherra, cun armamentos e cun médios “soft”, “orgogliosi di VINCERE”, e “su bene”, sa VITTORIA, est domíniu e dinari. Paret chi nos bastant custos mortos, pro VINCERE, comente naraiat cudhu, chentza pessare a s’impicu chi lu fit ispetendhe.
Epuru faghet a cambiare!!!
Donzunu e totugantos, síngulos e colletividade. In Sardigna puru, ca “puntu de fortza” e “puntu de arrimu” est in donzunu de nois e su chi ndhe podimus pesare est su “mundhu” inue zughimus sos pes e depimus zúghere e fàghere funtzionare sa conca puru e sa cusséntzia, mente e coro.
Discorso complesso, ma certo da condividere per quanto attiene la “visione” di Pigliaru, la quale continua elegantemente a fare danno, ed ad essere citata quale unico metro antropologico per osservare il fenomeno delinquenziale.
Invece, fuori accademia, ci sono ulteriormente da consultare i libri leggeri e senza pretese (ma veri e profondi) di due avvocati classici: Gonario Pinna, “Il Pastore Sardo e la Giustizia” ( https://www.librisardi.it/?product_cat=0&s=il+pastore+sardo+e+la+giustizia ) e Mario Berlinguer “Gli Occhi son d’ Acqua” ( https://www.librisardi.it/prodotto/gli-occhi-sono-dacqua/ ).
Soprattutto il primo sarebbe stato da consigliare al povero (si fa per dire) Beppe Grillo, laddove viene rammentata l’imprudente superbia di chi dice “de custa abba non bibo”; anche se, nel caso concreto sarebbe altrettanto adatto il discorso sull’Asino, il Sapone ecc. ecc.
Caro Paolo, alla fine del tuo coltissimo articolo ((per pochi) , concludi con una semplice verità: educare alla differenza tra il bene e il male:
perché non ti fai promotore di questo necessario insegnamento a partire dalle scuole d’infanzia?
Ti ammiro sempre per la tua raffinata erudizione che stento a capire, a causa della mia ignoranza e credo che ciò non capiti solo a me, che impasto acqua e farina.
Grazie. Bellissima, rara, profonda e precisa lettura dell’essenza dei fatti criminosi (quello di Oliena è solo l’ultimo in ordine temporale) che sentiamo spesso avvenire in tutto il mondo.
È proprio così. Accanto alla educazione alla vendetta, c’era il ‘A bocchire toccada a Deus’