di Franco Mannoni
Dico subito che è assai difficile trovare un orientamento affidabile e esprimere considerazioni fondate a proposito di ciò che avviene in Catalogna e in Spagna. A meno di imboccare la scorciatoia semplificata dello schierarsi intanto, per principio, a favore dell’autodeterminazione oppure, sull’altro versante optare per la difesa della legalità costituzionale.
Terza via: seguire con apprensione il corso degli avvenimenti e lo svilupparsi delle posizioni e vedere di costruirsi un’idea non solo per appagamento personale, ma per confrontarla e contribuire alla definizione collettiva di atteggiamenti e proposte.
È di tutta evidenza la crisi degli stati nazionali, in tutto il pianeta, anche se con modalità e intensità differenti. Mi pare difficile confrontare la situazione della Cina con quella, ad esempio, dell’Inghilterra o della Grecia. In generale gli Stati non più in grado di imporre la forza del diritto per normare, esempio non casuale, le transazioni finanziarie e le trasmigrazioni del capitale verso i luoghi di maggior profitto, così come non sono in grado di porre singolarmente rimedio alle conseguenze direttamente procurate dalla globalizzazione. Si verifica, questo, a proposito di modificazioni climatiche globali, di crescita delle diseguaglianze, di regolazione degli imponenti fenomeni migratori in atto.
Altrettanto avviene per le ricadute conseguenti, come la crisi del welfare, la disoccupazione, l’emarginazione sociale. Particolarmente evidenti nella ‘Terra dell’Abbondanza’, come Rutger Bregman definisce i paesi compresi nei circuiti tradizionali del benessere. Rischio e paura del futuro sono vicini di casa. Chiunque parli di lavoro, famiglia, impresa, educazione nel nostro paese come in altri luoghi d’Europa, fa subito i conti con l’incertezza, il senso del precario e la paura. Lo Stato nazionale, vessillifero del progresso, delle tutele, garante del futuro, perde ogni giorno un pezzo della sua capacità di protezione.
I ceti medio bassi, come quelli che in massa hanno invase le strade di Barcellona, pur al momento integrati nel circuito dell’abbondanza, vedono deperire speranze e sicurezze e hanno buoni motivi di temere per il futuro. Di temere soprattutto la perdita dei margini di vantaggio, rispetto ad altri territori, che ancora li tutelano. Temono però l’ondata migratoria, di non reggere alle competizioni, di veder impoverirsi il ceto medio di appartenenza.
A questo quadro c’è chi intravvede una risposta ‘rivoluzionaria’, una visione cosmopolita che punta oltre la dimensione nazionale tradizionale, guardando alla lotta contro il riscaldamento globale, all’apertura dei confini, alla introduzione del reddito di base (ancora Rutger Bregman, ma anche il compianto Ulrich Beck) alla riduzione dell’orario di lavoro. In sostanza varando una nuova ‘Utopia per realisti’. Ma per quanto convincenti, si tratta di proposte la cui condivisione è ancora limitata.
Più facile orientarsi in direzione difensiva, chiudendosi in una comunità di lingua, tradizioni e storia e conquistando la statualità, nell’illusione di riuscire dove gli altri hanno fallito non solo per loro limiti, ma a causa della metamorfosi alla quale il mondo è interessato.
Devo confessare di nutrire nei confronti del popolo catalano una forte simpatia e quindi di essere portato a solidarizzare con i catalani trattati dal governo spagnolo in una maniera esecrabile. Ciò non mi priva della opzione di diffidare dall’azione dei gruppi dirigenti catalani che hanno contribuito alla situazione presente in maniera determinante e certamente deliberata. Inoltre, forse per la mia formazione sono portato a vedere una delle ragioni dello scontro nell’aver consentito che si saltasse la via parlamentare per un confronto chiaro che stabilisse i capisaldi di una trattativa rivolta al futuro.
Credo che alla crisi degli stati nazionali si debba reagire con un’azione che porti più avanti i sistemi di decisione, che vuol dire costruire quello che all’Europa è mancato, un parlamento democratico e un governo sua espressione che superi i limiti della trattativa fra Stati.
Che si debba reagire accrescendo i poteri di governo delle comunità regionali e di quelle metropolitane, dotandole delle facoltà di muoversi liberamente nelle reti di comuni interessi e comuni politiche transnazionali.
Chiamiamola autogoverno, chiamiamola indipendenza. Tutto sta a vedere come si può strutturare in progres un sistema di rapporti fra livello regionale e quello statale che interrompa il circuito perverso che stringe oggi la Sardegna.