“Noi consideriamo la forma attuale del Federalismo europeo come un “sistema chiuso”, una concentrazione di “nazionalismi”… È il federalismo di vertice, una sorta di consorzio di proprietari. È il federalismo che esclude il dialogo aperto con l’Oriente Europeo e con il Nord europeo come con il Sud Mediterraneo (cioè il Medio Oriente e l’Africa Settentrionale, che gravitano economicamente sull’Europa)… Noi siamo sicuri che il Federalismo Europeo, che ha partorito la Comunità economica europea… si oppone ad un’articolazione dell’autogoverno e del potere decisionale non solo degli stati membri (di forma tipicamente ottocentesca) ma soprattutto delle comunità marginali, che sono i diversi “mezzogiorni d’Europa”… In sostanza si tratta di un’arida operazione di concentrazione di potere…”
Raramente il destino ci regala dei finissimi intellettuali capaci di produrre pensieri la cui attualità resta integra nel tempo. Uno di questi è Antonio Simon Mossa. Architetto, osservatore della realtà isolana, viaggiatore attento alle problematiche delle “Comunità Etniche Europee” e delle “Nazioni Senza Stato” come anche poligrafo, giornalista, redattore, scenografo, cineasta, politologo e massimo ideologo del Sardismo nazionalitario ed indipendentista, rivoluzionario e libertario. Un uomo, insomma dalla finissima cultura e dalla personalità poliedrica. È apprezzabile il fatto che, nonostante le sue caratteristiche lo rendessero un uomo di levatura superiore alla media, allontanatosi dall’ambiente sardista Simon Mossa non si sia lasciato sedurre da impulsi leaderistici perché la sola aspirazione di un patriota è lo sviluppo del proprio popolo al quale si affianca nel cammino verso la felicità e la libertà.
Fu anche il primo etnolinguista sardo del XX secolo ad aver intuito la centralità della lingua sarda come collante identitario nazionale. Tradizione lingua e cultura non significa ripiegarsi su se stessi senza aprirsi al mondo, non significa rinunciare a progresso, tecnologia, innovazione e modernità. Si tratta di creare un connubio tra tutti questi aspetti.
Simon Mossa era un poliglotta, scriveva e parlava otto lingue ufficiali di Stato, europee ed extraeuropee e sette lingue minoritarie (berbero, galiziano catalano, basco, bretone, occitano gallese e scozzese) nonché la lingua sarda in tutte le sue varianti. Il suo ingegno era arrivato a teorizzare, negli anni ’60, ciò che noi ancora fatichiamo a realizzare. La centralità della Sardegna, adagiata nel cuore del mondo, il Mediterraneo, è la radice dell’aspirazione all’apertura a tutte le culture e le lingue europee e mediterranee, nel segno del rispetto reciproco.
D’altra parte l’interconnessione, l’instancabile volontà di capire e studiare nel profondo gli altri popoli e le loro culture non deve implicare la rinuncia a mantenere vive l’identità, le tradizioni e la lingua sarda, dovrebbe anche essere uno stimolo a rispettare ed apprezzare ancora di più la propria identità. Ovviamente l’impegno a tutelare la tradizione non deve tradursi in un’operazione di folklorizzazione svilente ma è finalizzato ad affinare gli strumenti per capire i nostri bisogni di popolo nella continua interazione con gli altri popoli. La vocazione della Sardegna, infatti, dovrebbe essere quella di ricoprire il ruolo di interlocutore con tutti gli altri popoli delle diverse sponde mediterranee.
Il pensiero di Simon Mossa, infatti, risulta essere di un’attualità sconvolgente all’interno di un sistema internazionale, come quello odierno, dove le interconnessioni sono una realtà ineluttabile ma dove, allo stesso tempo, le tentazioni assimilazioniste sono troppo forti. Il sistema internazionale ha riconosciuto l’esigenza di teorizzare blandi meccanismi di tutela degli individui appartenenti a minoranze etnico linguistiche solo in seguito ai fatti conseguenti la dissoluzione della ex Jugoslavia, a 30 anni di distanza dagli scritti di Simon Mossa. Era necessario attendere che si consumasse un eccidio per giungere a questo risultato? Ci si domanda quali sarebbero le riflessioni di questo straordinario pensatore di fronte a un contesto nel quale modelli politici sovranazionali e ciò che resta degli stati lottano all’ultimo sangue per la concentrazione di potere escludendo le esigenze di popoli e culture dall’agenda politica e tentando di appianare e appiattire le diversità.