Oggi si dà notizia dell’avvenuta iscrizione nel registro degli indagati del Presidente della Regione.
Posto che, come noto, mi colloco non sul piano dell’opposizione al governo Solinas, ma in quello della resistenza, che è di più, resta un punto: perché ciò che può essere un atto dovuto, ma non per questo foriero di incriminazione, è sui giornali?
Personalmente penso che, a norme vigenti, il Presidente della Regione possa nominare suo consulente un po’ chi gli pare, fuorché i consiglieri regionali uscenti che devono rispettare il periodo di raffreddamento di due anni previsto dalla Legge Severino.
Ma il punto non è il merito della questione: è la pubblicità.
Adesso la Regione Sardegna ha un Presidente che oltre a essere impegnato a fare veramente poco è comunque intaccato nel suo prestigio istituzionale.
La pubblicità genera e lede la reputazione.
Vi sono molte persone, che hanno avuto incarichi pubblici, che dopo aver subito il processo prima del processo (impressionanti le parole dell’ex sindaco Marino sul ruolo svolto dal Pd nelle sue dimissioni e sul peso che le dichiarazioni degli appartenenti al Pd ebbero nella fase iniziale delle indagini) hanno patito un linciaggio dagli esiti irrimediabili sul piano del prestigio personale, e poi risultati, dopo il processo vero, innocenti.
Sono contro i processi di Piazza. Sono contro gli avvisi di garanzia divulgati sui giornali (uno degli indagati sul caso di Alberto Scanu, mi ha scritto di risultare indagato sui giornali ma di non avere ancora ricevuto l’avviso di garanzia). Sono contro la ferocia, anche quando colpisce un avversario come il Presidente della Regione.
Ho personalmente e direttamente (cioè senza nascondermi, nonostante avvocati e no mi dicessero di tacere e vivere tra casa e lavoro e basta) criticato la conferenza stampa della Procura di Oristano sull’ordinanza di custodia cautelare contro Succu e Cherchi.
Poi sono andato a leggermi un po’ di letteratura specializzata, non è tantissima, dedicata alla pubblicità dell’Ordinanza dopo il Decreto Spazzacorrotti del ministro Bonafede.
E ho scoperto che l’ordinanza di custodia cautelare è diventata dal 1 gennaio 2019 un po’ un atto pubblico, sebbene questo produca più di uno squilibrio.
Vi è, infatti, chi ha notato, che inevitabilmente rendere pubblica l’ordinanza garantisce l’amplificazione dei soli testimoni d’accusa, quindi anche dei giudizi gratuiti, delle impressioni, delle semplificazioni, delle deformazioni (degni di nota le profilazioni psicologiche degli imputati, infilate in proposizioni parentetiche, in aggettivi, in anacoluti impattanti), che il PM può valorizzare per accompagnare l’accusa, piuttosto che per dimostrarla.
Mentre questo avviene, cioè mentre l’accusa dilaga nell’opinione pubblica (ledendo la reputazione non solo degli indagati, ma di tutte le persone direttamente o indirettamente coinvolte), la difesa deve aspettare le fasi del processo per parlare.
L’Accusa si appropria della piazza, crea il clima di condanna dell’imputato, fa il processo fuori dal processo, mentre la difesa deve aspettare il processo.
L’altro elemento che comincia ad essere preoccupante, anche alla luce dell’annunciata inchiesta contro il Presidente della Regione, è il riscontro puntuale dei fatti alle dichiarazioni del giudice Pignatone, il quale qualche giorno fa ha dichiarato che nell’Italia dei social e dell’amplificazione dell’invidia, la cronaca giudiziaria è parte della lotta politica.
Vi sono parole e immagini che se usate dentro il Parlamento o nello scontro politico, hanno un peso; se vengono trasformate in notitia criminis ne hanno un altro, allo stesso modo in cui se ogni malevolenza dettata dalle più svariate ragioni viene introiettata come accusa fondata, inevitabilmente l’amministrazione della Giustizia si ingaglioffisce nello scontro politico e nello scontro sociale, nelle maldicenze da bar.
Se poi accade, e quando facevo politica attiva ebbi modo di dirlo anche a un magistrato in una situazione informale, che si apra un fascicolo su ogni sussulto delle forze politiche contrapposte, prima di averlo accuratamente verificato, o che invece se ne valorizzi alcuni e se ne ignori degli altri, allora si rischia di vedere la realtà dalla prospettiva limitata e faziosa della parte politica.
Il tema dunque è il rapporto tra la politica e l’obbligo dell’azione penale. Ma come funzioni questo obbligo è un fatto un po’ discrezionale (non a caso le migliori Procure disciplinano anche le modalità di iscrizione al registro degli indagati. Ne abbiamo già parlato).
Per esempio, quando ero assessore solitario ai Lavori Pubblici, revocai gli incarichi aurei di collaudo assegnati senza gara dalla Giunta precedente a specifici professionisti, e contro il parere degli uffici, su singoli lotti della Sassari- Olbia. Uno degli ex beneficiati smise di salutarmi quando lo incontravo sugli aerei. Fu quella la procedura più grave che rilevai sulla Sassari-Olbia (a parte quella per me incomprensibile sugli spartitraffico in cemento, che mi pare di una rilevanza tanto inaudita quanto sottovalutata per la sicurezza degli automobilisti). Gli atti vennero sequestrati per altri motivi, ma su questo specifico fatto non si avviò alcuna azione penale. Evidentemente, si dirà, non era stato commesso un reato, ma la domanda è se è stata condotta un’indagine per affermarlo con certezza, posto che si disponeva di un atto, la revoca, che certificava l’irregolarità del suo precedente.
Questi sono i fattori soggettivi dell’obbligo dell’azione penale. Vediamo altri esempi.
Sempre quando ero assessore ebbi un durissimo scontro col Banco di Sardegna perché diversi cittadini mi segnalarono che l’Istituto si rifiutava di rinegoziare i mutui prima casa, secondo il dettato del Decreto Bersani, prima del periodo di dieci anni nel quale la Regione abbatteva il costo degli interessi. Arrivai a revocare la convenzione e indire un nuovo bando. Tutto nel più totale disinteresse di qualsivoglia organo di vigilanza (e, devo dirlo, con non troppo entusiasmo dei colleghi di Giunta). Le banche sono all’interno del mondo verificabile o all’esterno?
Sempre quando ero assessore, dovetti assistere, e lo contestai pubblicamente, a membri degli staff della Giunta regionale che senza dismettere la carica partecipavano a selezioni indette da dirigenti su cui esercitavano il controllo degli atti. Nessuno mosse un dito. Io lo denunciai per chiedere trasparenza, ma è sintomatico che nessuna coscienza giudiziaria sensibile sentì prudere l’obbligo dell’azione penale, tantomeno avvertì alcuno scrupolo morale chi esercitava la funzione politica. L’indignazione è diversa a seconda della parte politica nella quale si milita.
Quando iniziò la famosa indagine sull’utilizzo dei fondi dei Gruppi, io immediatamente dissi che era una questione che, al netto di specifici comportamenti personali, riguardava l’intero Consiglio regionale perché generata da un regolamento ambiguo, dal quale alcuni si difesero con propri e personali comportamenti, per prudenza o per fortuna, altri invece furono colpiti. La stragrande maggioranza dei consiglieri regionali ritenne, sull’onda dei consigli di fior di avvocati, che occorresse rimanere fermi, non recarsi dall’autorità giudiziaria per far capire quel regolamento farlocco e fingere la totale estraneità. La Procura non aprì un’indagine generale, sebbene generale sin dal principio apparisse la condotta ritenuta illecita, lo fece con una lunga scansione temporale, diversa per ciascun partito. È noto il seguito della storia.
Perché l’obbligo dell’azione penale può avere, rispetto allo stesso reato, tempi d’azione diversi? C’è di mezzo la politica, o la carenza di personale, o la sapienza giudiziaria? Non saprei, ma l’effetto è straniante rispetto alla certezza del diritto.
La stampa, poi, fa di suo. Come spesso ho detto non fa mai la seconda domanda a chi la nutre di notizie, e i Palazzi di Giustizia sono una fabbrica di notizie. Ma di questo parleremo in altra sede.
Tuttavia, bisogna essere consapevoli che questo modo di ragionare, razionale e libero, che pone domande e chiede risposte, è odiato ormai da un’opinione pubblica che vuole un’esecuzione al giorno e basta e da quanti nell’ordinamento giudiziario ritengono che un politico in libertà sia un colpevole di cui non si è riusciti a dimostrare la colpa (sicut dixit Camillus).
Le ghigliottine fecero la fortuna temporanea di Robespierre solo perché l’invidia sociale, abbondantemente alimentata dai contrasti politici e dall’obbligo dell’azione penale trasformata in strumento di lotta politica, le alimentava. E a me non spaventa il boia, dispiace profondamente l’invidia.
Giustissimo