Dopodomani il Direttivo nazionale del Partito dei Sardi dovrà cominciare a prendere una serie di decisioni che non riguarderanno solo le elezioni politiche italiane, ma più in generale il modo di tenere vivi gli ideali, difendere la Sardegna, guardare sempre allo sviluppo e alla giustizia.
Non sarà semplice.
Le elezioni sono state organizzate in modo da confermare la forza dei partiti che già siedono nel Parlamento italiano, non per consentire l’accesso a nuove idee e a nuovi soggetti. Se non è per niente vero che il PD ha già perso, che il M5S ha già vinto o che abbia già rivinto Forza Italia, è però vero che in Sardegna l’area progressista e indipendentista (nella quale noi iscriviamo anche larga parte dei liberal-democratici) è maggioritaria (se si sommano i dati degli ultimi sondaggi e li si incrocia con i dati delle regionali, non c’è discorso: si va oltre il 40%).
Il guaio è che questa area sta sbagliando a parlare la sola lingua tradizionale della Vecchia Sinistra (e oggi parla anche il linguaggio della resa dei conti a Sinistra, quello per il quale non è importante vincere, ma non far vincere i parenti) e non quella nuova della Nazione Sarda. Questo è il punto per noi: quanto queste elezioni possono rafforzare o indebolire un discorso nazionale sardo? Quanto possono essere trasformate da elezioni per eleggere qualcuno in elezioni per qualcosa di storico, di nuovo, di strategico per la Sardegna? Quanto queste elezioni sono divisive per la Sardegna e quanto invece possono essere occasione di unità intorno a una vera bandiera?
Noi sappiamo chi siamo e quanto valiamo, ma sappiamo anche che dobbiamo lottare perché il sistema politico italiano non stabilizzi la marginalizzazione della Sardegna. Dobbiamo togliere ordinarietà alle elezioni. Ne parleremo.