di Paolo Maninchedda
Diceva Giovanni Falcone: «Che le cose siano così, non vuol dire che debbano andare così. Solo che, quando si tratta di rimboccarsi le maniche e incominciare a cambiare, vi è un prezzo da pagare, ed è allora che la stragrande maggioranza preferisce lamentarsi piuttosto che fare».
Questa frase sta in un sito di amici professori universitari e ogni volta che la leggo mi rafforzo, perché io vorrei continuare a vivere con le maniche alzate.
Trovare intellettuali che non badano alla propria convenienza, alle comode abitudini e alle consuetidini rassicuranti, non è per niente facile.
In questi giorni è stato pubblicato il nuovo libro di Giuseppe Mele, professore di storia moderna dell’Università di Sassari. La sua premessa è un canto di dignitosa e ferma libertà di un uomo di cultura che non vuole farsi sopraffare dai burocratismi italici, dalle ipocrisie che si stanno sovrapponendo come polvere alla nobilissima arte dello studiare, la quale necessita di tempo, di riflessione e non di meccanismi da fabbrica fordista. Noi l’Università della Repubblica di Sardegna la faremo con questo spirito di libertà.
Ecco il testo:
«Negli ultimi anni è diventato sempre meno agevole condurre ricerche storiche di ampio respiro. E non tanto per la difficoltà di disporre del tempo necessario per individuare le fonti archivistiche (in Italia e all’estero), interpretare le carte e rielaborarne i contenuti alla luce delle conoscenze bibliografiche sul tema trattato.
Gli impedimenti che mettono i bastoni tra le ruote alla buona ricerca sono senz’altro molteplici e complessi, ma vanno individuati, in primo luogo, nel sistematico disinvestimento pubblico, operato in tempi recenti, nel campo della ricerca scientifica e della formazione superiore; nella politica di progressiva burocratizzazione del corpo accademico e nel protrarsi del blocco del turn over, che ha impedito alle ultime generazioni di studiosi di accedere stabilmente ai ranghi universitari.
Al forte ridimensionamento del numero dei docenti si è poi andato sommando un indirizzo ministeriale, accolto supinamente – duole dirlo – dalla maggior parte degli studiosi di area umanistica, volto a privilegiare non tanto l’elaborazione di monografie quanto quella di articoli e saggi brevi, che vengono paradossalmente valutati, ai fini del rilevamento della produttività scientifica dei singoli ricercatori, più per la rivista che li accoglie che per il loro contenuto. Di conseguenza viene anche negata la libertà di scegliere lo strumento editoriale ritenuto più appropriato per raggiungere i lettori maggiormente interessati alla pubblicazione. Quanto alla pretesa di valutare un volume di alcune centinaia di pagine, frutto di anni di indagini archivistiche, al pari o poco più di un articolo su un argomento circoscritto credo che non valga nemmeno la pena di spendere parole.
Un’impostazione così miope di quelle che dovrebbero essere le direttrici operative volte a migliorare, stimolandoli e finanziandoli adeguatamente, la ricerca e il sapere critico, dissuade di fatto gli studiosi dal pianificare indagini complesse e dunque dalla produzione di opere di maggiore impegno e di trattazioni più articolate. Viene spontaneo chiedersi se, in un clima culturale siffatto, sarebbero mai stati dati alle stampe libri fondamentali quali – cito a caso – La Méditerranée di Fernand Braudel o Empires of the Atlantic World di John H. Elliott.
Perché privarci, in altri termini, dell’opera delle nuove leve della ricerca, impedendo loro di cimentarsi in imprese che senza il sostegno della mano pubblica ben difficilmente potranno essere programmate e portate a termine?
Ma c’è dell’altro. Da qualche tempo si vanno imponendo, e non soltanto in ambito locale, facili mode storiografiche e un modo di fare divulgazione che pretenderebbero di andare incontro ai lettori offrendo loro compendi o testi di discutibile valore scientifico: lavori fondati, in buona misura, su fonti secondarie e sempre meno, invece, su percorsi di ricerca virtuosi, da costruirsi attraverso l’uso privilegiato e rigoroso delle carte d’archivio e della letteratura storica internazionale. Contro questa deriva, favorita anche dallo spirito di adattamento degli studiosi verso l’impostazione data al processo di valutazione dei loro prodotti, e che rischia inoltre di distoglierli dal dovere della riflessione e della libera indagine, credo sia necessaria una decisa presa di posizione. In particolare per rigettare l’idea che la ricerca possa essere in qualche modo indirizzata e vincolata, a garanzia dello sviluppo civile e democratico del Paese e nello spirito degli articoli 33 e 13 della Costituzione italiana («L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento») e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea («Le arti e la ricerca scientifica sono libere. La libertà accademica è rispettata»). Questo libro nasce dunque con l’intento di riaffermare la libertà di indagine e di ribadire la convinzione che la produzione scientifica non debba in alcun modo essere guidata dall’alto. Ma ha soprattutto uno scopo divulgativo e didattico elevato: sia per rendere fruibile a un pubblico più vasto documenti altrimenti accessibili soltanto agli specialisti; sia per aggirare l’ostacolo dei corsi accademici che non consentono più di programmare approfondite ricerche d’archivio con gli studenti.
La trascrizione dei testi è fedele all’originale anche negli errori e nelle ripetizioni. Si è comunque scelto di rendere più agevole la lettura delle carte sciogliendo tutte le abbreviature, introducendo le moderne regole di accentazione e minime correzioni nell’uso della punteggiatura quando il senso del testo risulterebbe altrimenti poco chiaro. Oltre ai regesti compilati dall’autore (in corsivo) si è deciso di mantenere quelli originali presenti in apertura o in calce ai documenti, che vengono riportati in grassetto all’inizio degli stessi, così da restituire per quanto possibile l’idea del manoscritto e dell’uso che ne è stato fatto dall’estensore, dai funzionari pubblici coevi o dagli archivisti intervenuti posteriormente».