di Paolo Maninchedda
In un liceo di Olbia si è svolto un incontro sulle servitù militari in Sardegna, presente il presidente della Commissione parlamentare sull’uranio impoverito Giampiero Scanu. Tre senatori di Forza Italia, e cioè: Maurizio Gasparri, Bruno Licata e, ahimé, il sardo Emilio Floris, hanno presentato un’interrogazione in Senato per chiedere al Governo «se non ritenga opportuna la sospensione degli altri appuntamenti previsti e quali provvedimenti di propria competenza intendano adottare nei confronti degli organizzatori o di coloro che, comunque, hanno permesso questo tipo di manifestazione all’interno dell’istituto».
Questo evento ha due risvolti: uno culturale e l’altro politico.
Culturalmente occorre chiedersi che idea si ha della scuola.
Se la scuola statale fosse obbligata a celebrare lo Stato e le sue articolazioni, verrebbe confermata la tesi di chi sostiene che l’ombra del misticismo istituzionale di Giovanni Gentile è ancora attivo.
Direi che in Sardegna la scuola non ‘può’ ma assolutamente ‘deve‘ non solo porre e porsi domande, ma anche darsi risposte.
Si chiede che lo si faccia in contraddittorio, ma certamente si dimentica che la natura, l’estensione e la durata delle servitù in Sardegna non sono state determinate in contraddittorio; quindi da un lato si impone, dall’altro si pretende di far apparire, nell’istituzione educativa per eccellenza, di far apparire come ‘normale’ una situazione eccezionale, imposta, non negoziata e non negoziabile. La logica dei mistici di Stato vorrebbe che prima si accettase la subordinazione e poi si discutesse alal pari, come se le posizioni contrapposte fossero ancora sullo stesso piano potenziale della teoria e non su quello sbilanciato e ingiusto della realtà imposta.
Bisogna resistere, resistere sempre, pacificamente, legalmente, ma resistere.
Politicamente i tre senatori lanciano un sasso nello stagno che riguarda soprattutto noi indipendentisti.
L’accusa è lì, neanche velata, è diretta, con la mascella in fuori: separatisti.
L’accusa di separatismo è un punto di vista relativo spacciato per assoluto. È il punto di vista di Roma che sin dai tempi del Risorgimento ha strutturato l’ideologia dell’unità della Repubblica su quella del corpo mistico della Chiesa. È la parte più conservatrice della Costituzione della Repubblica italiana, quella meno intaccata dal biennio della Resistenza. Mi diceva qualche settimana fa Tonino Dessì che la bellezza dei principi fondamentali della Costituzione italiana contrasta e stride con le altre parti della carta costituzionale, laddove si struttura lo Stato con una pesantissima eredità del periodo risorgimentale. Antonello Cabras, l’anno scorso, ha posto una domanda in pubblico: «Ma perché il trattato di Lisbona contempla non solo le procedure per entrare nell’Ue ma anche quelle per uscirne e invece la Costituzione italiana considera l’unità della Repubblica, così come si è configurata dopo le tante guerre, un dato non discutibile?». La risposta è sotto gli occhi di tutti: perché l’unità della Repubblica italiana è un fatto religioso, non politico. È il tabernacolo della religione del Risorgimento, non discussa né discutibile, non ragionata, non verificata e non sottoponibile alla verifica del consenso.
Quando la politica si ammanta di sacralità, il dissenso e l’esecizio critico sono considerati eresia e tradimento.
La reazione a queste scorie fasciste consiste nello sviluppare la nostra idea indipendentista in forme così legali, così pacifiche, così convincenti e dialoganti, da risopondere con l’ampliamento del consenso al tentativo di estremizzazione. Qualsiasi indipendentista potrebbe trovarsi domani davanti a un giudice che lo accusa di attentato alla costituzione perché indipendentista. Bisogna continuare a essere indipendentisti rivendicando la legalità, almeno sul piano del diritto internazionale, della nostra posizione.
Bisogna rifiutare ideologicamente e smentire praticamente che gli indipendentisti siano estremisti. Bisogna spostare il variegato mondo progressista da posizioni unitariste e/o autonomiste a posizioni quanto meno federaliste per poi arrivare a posizioni indipendentiste condivise. Bisogna avere profonde radici, grandi convinzioni, ma anche grande pazienza dialogante, grande abilità nel non farsi ghettizzare, nel non farsi provocare ad esasperare gli animi. Noi abbiamo una prateria davanti: dobbiamo togliere la paura della piena e sovrana responsabilità all’area progressista sarda. Fatto questo, il futuro è nostro.
Comment on “Invece sì: le istituzioni e lo Stato sono criticabili. Ma il rischio della galera è sempre dietro l’angolo”
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Grazie Paolo … Per metterci la faccia ogni santo giorno …ed il cuore …anche quando sarebbe più facile lasciare scorrere.
Buon fine settimana
Renato