di Cristina Mocci
L’HPV (papilloma virus umano) è un virus a DNA appartenente alla grande famiglia delle Papillomaviridae, virus in grado di causare diverse infezioni nell’uomo. All’interno di questa ampia famiglia vi sono diversi genotipi, cioè virus caratterizzati da un preciso patrimonio genetico, che provocano specificamente un’infezione della cervice uterina (o collo dell’utero), che la maggior parte delle donne contrae almeno una volta nella vita. L’infezione con uno dei genotipi di HPV non protegge dall’infezione con gli altri genotipi. Vi è quindi la possibilità di essere infettati da più di un virus contemporaneamente.
L’infezione da HPV è molto diffusa nella popolazione generale, maggiormente tra i giovani adulti sessualmente attivi. Per avere una concreta dimensione del problema, basti considerare che nei Paesi industrializzati oltre il 70% degli adulti sessualmente attivi acquisisce almeno un’infezione da HPV nel corso della propria vita. Il picco massimo di incidenza avviene solitamente in giovane età, subito dopo l’inizio dell’attività sessuale, per poi tendere a ridursi successivamente (Fig. 1), probabilmente in virtù di un’immunità tipo-specifica acquisita. Ciò verrebbe confermato dal fatto che anche donne in età avanzata con intensa attività sessuale hanno, rispetto alle più giovani, un minor tasso di acquisizione di infezioni da HPV.
Nella maggior parte dei casi l’iniziale infezione si risolve da sola. In alcuni casi invece l’infezione provoca delle lievi alterazioni alle cellule del collo dell’utero che desfoliando possono essere prelevate ed esaminate microscopicamente con un esame specifico che si chiama Pap-test (Fig. 2). Queste lesioni iniziali vengono chiamate ASC-US, atypical squamous cells of undetermined significance (cellule squamose atipiche di significato incerto), oppure L-SIL, low squamous intraepithelial lesion (lesioni squamose intraepiteliali di basso grado).
Le alterazioni cellulari in genere si risolvono nel giro di qualche mese senza nessuna terapia. È importante però tenerlo sotto controllo nel tempo perché in alcuni casi possono diventare lesioni precancerose del collo dell’utero, chiamate CIN, (cervical in situ neoplasia – neoplasia cervicale in situ), di gravità diversa. Anche la maggior parte di queste lesioni guarisce spontaneamente, ma alcune, se non curate, possono progredire e diventare tumori (Fig. 3). Questo processo avviene in un periodo di tempo che varia dai 5 ai 20 anni dal momento dell’infezione.
Sulla progressione del processo influiscono sicuramente lo stato del sistema immunitario, il fumo, l’utilizzo di contraccettivi orali, il numero di partner sessuali nel corso della vita, l’età precoce al primo rapporto sessuale e la promiscuità dei partner sessuali.
Con gli strumenti diagnostici oggi a nostra disposizione non siamo in grado di capire quali lesioni guariranno e quali invece progrediranno verso un tumore franco. Nuove metodiche sono attualmente sotto scrutinio per verificarne il reale potere di predizione. Oggi possiamo solo tenere sotto controllo tutte le lesioni e trattare solo quelle al di sopra di un certo livello di gravità. Vi è infatti un rischio non trascurabile di complicanze associato agli interventi utilizzati per trattare le lesioni, e occorre quindi bilanciare i benefici reali del trattamento con i potenziali rischi associati. È corretto e consigliabile quindi riservare i trattamenti a quelle lesioni che hanno già manifestato un potenziale evolutivo, cioè quelle che vengono chiamate CIN2 e CIN3. Le lesioni più piccole, cosiddette CIN1, vengono invece controllate nel tempo con il test HPV o con la esecuzione di colposcopie seriate.
Il nuovo test HPV, che si avvale del test DNA, serve a identificare i virus HPV ad alto rischio oncogeno. I virus HPV infatti si dividono in base al rischio accertato di produrre il tumore. Ve ne sono quindi a basso rischio oncogeno associati a lesioni epiteliali benigne (verruche e condilomi), a rischio intermedio e ad alto rischio oncogeno, che sono associati ad un rischio maggiore di sviluppare carcinoma del collo dell’utero.
La prevalenza di HPV ad alto rischio nella popolazione generale è dell’8% tra gli studi con campione casuale della popolazione, senza differenze significative fra Centro-Nord e Sud-Isole, tuttavia, la prevalenza è leggermente più alta al Sud che al Centro-Nord tra le donne fino a 54 anni d’età, mentre nelle donne più anziane il rapporto si inverte.
L’HPV 16 è risultato il più frequente nella popolazione sana con un valore medio di quasi 5%. La prevalenza di HPV 18 è invece decisamente più bassa, poco più dell’1%. La positività all’HPV 16 è del 64% per le CIN2/3 e 68% per i cancri invasivi, quella all’HPV 18 è del 7% per le CIN2/3 e 11% per i cancri invasivi. Non si sono registrate differenze significative per area geografica. L’incidenza di cancro invasivo della cervice uterina in Italia è tuttavia in calo, passando da un tasso standardizzato di 9,2 a 7,7 per 100.000 in 10 anni. L’incidenza è minore al Sud. La copertura del Pap test è oltre l’80% al Centro-Nord, ma non arriva al 60% nel Sud-Isole.
I programmi di prevenzione di cui disponiamo includono sia la prevenzione primaria (il vaccino), sia la prevenzione secondaria (controlli periodici). Allo stato attuale, nonostante la buona diffusione iniziale del vaccino, gli esperti concordano che lo screening con il Pap-test sarà destinato a rimanere sempre uno strumento essenziale, affiancato dal test HPV, per combattere il cancro del collo dell’utero.
Infatti il vaccino può prevenire l’infezione da HPV ad alto rischio in futuro, ma non è in grado di curare un’infezione già presente. Inoltre la protezione complessiva offerta dai vaccini non è completa. Esistono infatti circa 15-20 tipi di virus HPV che possono causare il tumore del collo dell’utero. I vaccini sono studiati per proteggere contro i due tipi di virus oncogeni che sono responsabili di circa il 70% i tutti i tumori cervicali. Tuttavia, il vaccino non protegge il rimanente 30% di donne affette da uno degli altri tipi di HPV ad alto rischio.
A questo si aggiunge il fatto che la durata dell’efficacia del vaccino al momento non è nota. Non è ancora chiaro infatti se vi sia la necessità o meno di una vaccinazione di richiamo per assicurare una protezione continuata.
Gli esperti sono concordi nel ritenere comunque che i tassi di cancro cervicale negli anni a venire non si ridurranno di molto. Vi sono infatti un gran numero di soggetti già infetti, la diffusione del vaccino non è ancora capillare e non tutta la popolazione femminile ha aderito alla campagna di vaccinazione, anche perché il vaccino contro l’HPV non è approvato per le donne di età superiore ai 26 anni.
Lo screening con esecuzione del Pap-test rimane quindi un presidio fondamentale nella prevenzione secondaria del cancro del collo dell’utero. I dati prima esposti sulla diffusione di questo test nella popolazione femminile del meridione italiano non possono non allarmare (quasi una donna su due non ha mai effettuato un Pap-test). Occorre quindi potenziare i programmi di screening sensibilizzando amministratori e popolazione. Il test è molto semplice, viene fatto ambulatorialmente e ha un alto potere predittivo positivo, (è cioè in grado di identificare le donne affette dall’infezione).
Vaccinazione quindi o screening? Allo stato attuale entrambi rimangono strumenti essenziali per combattere il cancro del collo dell’utero, secondo un programma da determinarsi dal medico in base all’età e all’anamnesi di ciascuna paziente.