di Paolo Maninchedda
‘La grande ignoranza‘, non ‘La grande bellezza‘, questo è il miglior titolo per l’Italia.
Abbiamo dovuto sorbirci un triduo europeo fatto con toni, contenuti e metodi tutt’altro che europei e occidentali. Abbiamo avuto cronache, analisi e sermoni senza contraddittorio ispirati alla concezione del potere e dell’individuo tipici dell’est del mondo, tipici di quell’oriente che non capisce il liberalismo e il libertarismo (lo chiamo così, ma il suo vero nome è ‘libertinismo’, purtoppo questo nome è stato massacrato da tutti i moralismi e degradato a dissolutezza sessuale, ma in origine non era così) europei.
Come al solito, in Italia o è bianco o è nero, mai che ci sia un interesse al colore vero. E quindi nel triduo europeista abbiamo avuto i filo europeisti che hanno posto alla base del loro agire la necessità di essere grandi per fronteggiare le sfide della Russia, della Cina e degli Stati Uniti; e gli anti europeisti ad argomentare che bisogna ricreare le frontiere, le monete nazionali, le divise e le bandiere, perché così si fronteggerebbero meglio le tre grandi emergenze: immigrazione, lavoro, sviluppo. Gli anti europeisti non dicono ‘piccolo è meglio’, dicono ‘chiusi e schierati stiamo meglio’, una solennissima e pericolosissima stupidaggine.
Nessuan delle due tifoserie ragiona con ragioni culturali profondamente occidentali e europee.
Intanto, i nazionalismi e gli imperialismi che portarono l’Europa a una sequenza di guerre che durò quasi un secolo (dal 1860 al 1945) non sono un patrimonio esclusivo della cultura occidentale. Anzi, sono il maggior punto di contatto, basti leggere Le Goff se non il grande Marc Bloch prima ancora di Popper, con i dispotismi orientali, perché alla base di entrambi c’è la supremazia del potere pubblico, illimitato e illimitabile, di fronte ai diritti della persona. Le guerre europee non nacquero dal liberalismo, ma dall’interpretazione pubblica della supremazia economica.
Resta il fatto che essere europei significa partire nei ragionamenti di costruzione degli stati dai diritti individuali e non dalle dimensioni che la necessità storica imporrebbe agli stati e al potere pubblico.
La celebre frase di Voltaire (“Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione“) è l’Europa. La misura della grandezza delle istituzioni è la dimensione riservata alla libertà dei singoli.
Invece nel triduo di cui sopra è stata celebrata la contrapposizione tra quelli che vogliono un’Europa politica fedralistico-centralistica (il vecchio – 1939 – progetto di Von Hayek, con un governo federale espressione di elettorati così diversi da non aver mandato per politiche intrusive nei singoli stati, ma solo per politiche generali, cioè centrali) e quelli con l’elemetto e il giubbotto antiproiettile che legano a divise, bandiere, monete e polizia il futuro delle nuove generazioni.
Nessuno, dico nessuno, che abbia posto il problema principe in Europa, costitutivo della nostra cultura: come rafforzare le libertà individuali e rendere efficienti gli Stati? La strada è l’educazione, è la cultura, ossia la coerenza dei comportamenti e delle scelte non indotte da una burocrazia posta a presidiare un ordinamento giuridico pesantissimo e opprimente, ma determinate da comuni valori, da comuni convinzioni.
Tuttavia, in questi tre giorni, i sardi hanno potuto vedere plasticamente come l’Europa può essere anche la patria della loro sovranità: Malta presiede il Consiglio dell’UE fino al giugno 2017. Non è una questione di dimensioni, ma di diritti.