di Paolo Maninchedda
Ieri è emersa dall’assemblea del Pd un’indicazione chiara: fino al referendum non si parlerà non solo di rafforzamento (ma va anche considerata l’altra opzione, quella dell’alleggerimento) della Giunta, ma anche di tutte le altre cose salienti.
In sostanza il Pd ha proposto che l’ultimo mese di campagna elettorale non venga disturbato da altre emergenze.
Il problema è che le emergenze ci sono tutte e non hanno l’orologio biologico del referendum, per cui il 5 dicembre, quando ci sveglieremo da questa orgia di mistificazioni e di veleni di cui si sta riempendo il dibattito referendario, ci troveremo di fronte a situazioni incancrenite e per di più in un contesto drammatico.
Poniamo di essere riusciti almeno a varare l’assestamento di bilancio; a quel punto dovrà entrare in Aula il Bilancio 2017, già decurtato dei 120 milioni del piano di rientro della sanità, anticipati a quest’anno. Non solo: ci troveremo anche a novanta giorni dal congresso del Pd e nel mezzo avremo le vacanze natalizie. Ma c’è un “ma” grande quanto una casa: il 10 dicembre si celebra il congresso di scioglimento di Sel, che sarà tutt’altro che un congresso di estinzione; piuttosto sarà un luogo da cui o nasce un nuovo soggetto politico a sinistra del Pd, o ne nascono due, uno a sinistra e l’altro più prossimo al Pd. In quel congresso la pattuglia dei sardi (Luciano Uras, Massimo Zedda, Francesco Agus, Daniele Cocco, Eugenio Lai e Luca Pizzuto) svolgeranno un ruolo per niente marginale e dialettico con un altro sardo, Michele Piras. Il caso vuole che Sel esprima il sindaco di Cagliari e sia il secondo partito della coalizione di centrosinistra.
Tutto questo a non voler considerare le tensioni sulla finanza pubblica italiana tra il Governo e la Ue e il rischio di un’impennata sullo spread appena la polvere verrà tolta da sotto il tappeto e si scoprirà che l’Italia non sta riuscendo a crescere perché non ha una strategia reale della crescita.
Nel frattempo in Sardegna le emergenze non vanno in ferie.
Nelle campagne comincia a realizzarsi un fatto drammatico: non viene ritirato il latte dei pastori e quello che viene ritirato vale la metà di quanto valeva l’anno scorso. Adesso accadrà che o la Coldiretti prenderà in mano il malcontento e lo tradurrà in protesta propositiva o lo faranno altri soggetti meno istituzionali e meno propositivi.
La soluzione delle grandi crisi industriali ha tempi e modi troppo lunghi rispetto all’incidenza sulla vita quotidiana dell’assenza di reddito e di lavoro. D’altro canto si è fatta la scelta di non fare un grande piano di welfare di accompagnamento del cambio di filosofia messo in campo (nessun lavoro che non abbia dietro un’impresa), nonostante sia evidente che il problema è dato dalla mancanza e/o dalla moria delle imprese.
Le banche stanno agendo senza pietà contro le imprese esposte.
La Pubblica amministrazione paga molto a rilento e consuma la cassa delle aziende che hanno osato lavorare con gli enti pubblici.
I Comuni sono strozzati dal bilancio armonizzato, gabbia molto più esigente e stringente del precedente patto che non distingue tra Comuni virtuosi e bancarottari. In realtà l’armonizzato è un sofisticato sistema per centralizzare a Roma la cassa di tutte le articolazioni della Pubblica Amminsitrazione (mi perdoneranno quanti stanno girando la Sardegna a dire che se vincesse il Sì tutto sarebbe sistemato; il contrario, verremmo ulteriormente sistemati noi).
Sul versante degli appalti pubblici sta accadendo quello che è accaduto con i supermercati: chiudono i piccoli, mangiano i grandi, cioè sopravvivono solo le grandi imprese italiane. È certamente anche responsabilità culturale nostra, perché abbiamo RUP che non hanno alcuna coscienza nazionale e perché hanno giustamente paura di una magistratura che in Sardegna non ha mai costruito un database della serie storica degli appalti Anas, per esempio, per andare a vedere sui grandi appalti chi sono le imprese che li vincono (sempre le stesse, da decenni). Io sono contrario ai mercati chiusi e alle tutele politiche delle imprese, ma quando è troppo è troppo. Serve riprenderci il potere di bandire e gestire le gare, perché io sono convinto che questi signori vincono le gare perché le gare sono gestite a Roma, se fossero gestite qui il fattore competitivo supererebbe il fattore lobbistico. Recentemente sono andato ancora una volta a rappresentare al Presidente della Regione l’urgenza del varo della Società Sarda delle Infrastrutture. Spero che aumenti la coscienza politica e nazionale sarda della sua urgenza. Se si teme che a farla sia io, sono pronto ad andarmene purché si faccia.
Dinanzi a tutto questo, mi scusino quelli che si sono tarati solo sul referendum, proprio il referendum appare come una sorta di diversivo, di lotta di potere mascherata, animata dalla falsa promessa che dopo si risolverà tutto. Il referendum per la Sardegna è una tragica perdita di tempo, è la riedizione dello scontro tra Pompeo e Cesare, l’ultima versione dell’evoluzione/involuzione dal triumvirato al principato. Altro che aspettare, il nostro dovere dovrebbe essere anticipare.
Comments on “Il fermo biologico del referendum: il problema non è alzarsi presto, ma all’ora giusta”
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Una analisi saggia è corretta. LA vera realtà di cui altre forze politiche non sè ne occupano ed in particolare il PD dove il referendum è solo scontro di potere. Speriamo che la gente capisca e si ribelli come ha fatto con Trump: tutti a casa i nostri politicanti che non hanno capito che un litro di latte costa meno di una bottiglia di acqua con la conseguente rovina di tante aziende agricole.
Professore,
perché lei vede solo l’interno e non le opportunità che possono offrire il mare e le coste?